A chi, confrontandosi con questo complesso sentimento all’interno di un rapporto di coppia, rischiasse di patire gli stessi tormenti provati dal giovane Werther per l’inarrivabile Lotte, Ingmar Bergman offre una terapia d’urto con Scene da un matrimonio, trionfo assoluto del disincanto. Nessuno è in grado di dire cos’è l’amore è probabilmente la sintesi del suo messaggio.
Assistere alla rappresentazione teatrale, in questo caso, non è per nulla catartico. Non c’è liberazione dalle proprie viscerali passioni – con conseguente acquietamento della propria anima – ma frustrazione, senza mezzi termini.
Osservando i due protagonisti, sembra di sperimentare un déjà vu; di essere tornati, prima del tempo, tra le pareti della propria casa; di ascoltare l’amica che si confida disperata. La recita di perfetto binomio, interpretata ad arte da Giovanni e Marianna per assecondare le voyeuristiche tendenze di una sciocca rivista patinata, dura poco. Pochissimo. La farsa delle melense bugie, sciorinate sistematicamente con il sorriso sulle labbra, quasi a esorcizzare profonde angosce esistenziali e sentori di putrefazione, viene lentamente sopraffatta da placide correnti di veleno che si insinuano subdolamente tra i coniugi.
Non c’è terremoto, non c’è marea: è tutto un quieto morire. Lentamente, inesorabilmente. L’eutanasia dell’amore. Allusioni, recriminazioni, incomunicabilità, altalenanti riavvicinamenti, egoistiche chiusure minano senza tregua la relazione.
Sarà che lo stesso Bergman, negli anni ’70, era in procinto di separarsi da Liv Ullmann, ma tutto sembra disgraziatamente vero. Quarant’anni dopo, il regista della pièce, Alessandro D’Alatri, sa contestualizzare con intelligenza un’opera valida secula seculorum.
La scena è essenziale, onde evitare che si distolga l’attenzione dal conflitto interiore, dal quale si tende sistematicamente a fuggire. I mobili sono ricoperti da lenzuola bianche – quasi a richiamare uno spazio immobile in attesa di vita – spostate all’occorrenza dagli attori stessi per rappresentare i diversi locali della casa. Questa ripartizione è resa ancora più nitida da scritte luminose proiettate sul pavimento, nella combinazione delle quattro categorie spazio-temporali: interno/esterno, giorno/notte. La storia, a sua volta, è suddivisibile in tre periodi ben precisi: presente, futuro prossimo (dopo sei mesi), futuro remoto (dopo sette anni).
A differenza del film, il contesto non richiama più il post ’68, ma un ambito sociale alto-borghese e colto (con tanto di bambine, pranzo domenicale dai genitori, controllo delle nascite, casa di campagna, amanti e numerose -quanto superflue- relazioni sociali a seguito), in cui la donna è ben consapevole della propria dignità e dei propri diritti, sebbene non sappia bene come gestirli. La confusione sembra tenere banco. L’unica sicurezza è una solitudine assoluta. Quale sia la condizione ideale per i protagonisti – sposati, divorziati o amanti – rimane un mistero. Quali siano le soluzioni alternative a un sentimento che inesorabilmente sbiadisce è un arcano altrettanto inspiegabile.
Il regista non pretende di dare risposte, ma invita lo spettatore a riflettere sulle proprie relazioni e a smontare tutti quegli stereotipi che corrodono fino alle ossa intere istituzioni, matrimonio e famiglia in primis.
Assistere allo spettacolo con il proprio partner può essere un valido spunto per una riflessione costruttiva.
SCENE DA UN MATRIMONIO
Teatro Stabile d’Abruzzo
Adattamento e regia Alessandro D’Alatri
Con Daniele Pecci e Federica di Martino
Musiche originali Franco Mussida
Dal 1 al 12 febbraio 2012
Teatro India – Roma
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