«Chi si circonda della bellezza rassicura in qualche modo la propria esistenza. La bellezza è una forma di rassicurazione della propria esistenza, la bellezza rende sicuri».
E’ in questi termini che un filosofo epistemico puro, un ontologo teoreticamente prepotente come Emanuele Severino medita sull’ousìa del bello nell’orizzonte della vita umana.
Secondo un’opinione diffusa – con ogni probabilità derivante dal sempre maggior grado di autoreferenzialità dell’opera d’arte contemporanea – il bello è il superfluo, l’ornamentale, il di più non necessario, perché distante dai bisogni reali della vita. Contemplare il bello vorrebbe dire uscire fuori dal mondo, approdare estaticamente ad una dimensione di essenze rarefatte staccata nettamente dalle vicende e dagli affanni dell’esistenza. Sarebbe un lusso, una piacevole sosta. La proposta di Severino è risoluta: tutt’altro che incanto fugace e inconsistente, il bello è un rimedio al pericolo della vita, all’angoscia per l’effimero.
Da queste parole comincia un breve ed intensissimo viaggio spirituale nei luoghi del bello salvifico. La prima tappa è il Simposio di Platone, nello specifico quell’enigmatica e sublime frase che recita «amare il bene nel bello». Come altrove nei testi platonici, il bello è armonia, simmetria e proporzione. Ma il legame intimo con il bene che qui Platone istituisce, fa sì che in questo caso il bello sia anche qualcosa in più: è lo strumento mediante il quale è possibile liberarsi dalla morte, sia nel corpo – come procreazione, cioè continuazione di sé oltre se stessi – sia nell’anima – «contemplare la bellezza vuol dire essere in grado di partorire la vera virtù che produce la vita immortale». La bellezza come bene e come verità, ossia come mezzo che conduce all’immortalità. E fino ad Hegel, Schelling e Hoelderlin, che «chiudono la grande stagione della tradizione occidentale», nessun nodo strutturale muta in questo senso. E’ il nichilismo del nostro tempo che cambia le carte in tavola. Severino evoca Leopardi, l’italiano che «ha aperto la strada all’intero pensiero contemporaneo». Un’interpretazione inusuale ma potente, dell’Infinito e della Ginestra, porta Severino a dire che, nel tempo del nichilismo «la bellezza diventa la potenza con cui si guarda all’impotenza delle cose; […] La visione terribile del deserto solleva […] costituisce l’immagine immedesimandosi nella quale l’uomo può vedere dal di fuori le regole della vita, e quindi entusiasmarsi, una radice che allude alla vicinanza con gli dei (stare presso gli dei)». Cosa significa? Dinnanzi al deserto, al fuoco onnipotente che annienta, la ginestra, il poeta ci salva: «quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo, che il deserto consola». Ma non si tratta più del profumo del vero. Gli dei e la verità sono caduti. Il profumo è la stessa potenza del canto con cui il poeta guarda al deserto, il persuaderci di esser di fronte al significato ultimo. E’ per questo che l’opera di genio è consolatoria anche quando rappresenta la nullità delle cose, l’inevitabile infelicità della vita. Arte e bellezza – sinonimi per Severino – sono gli ultimi rifugi della natura, dell’istinto di sopravvivenza. Sono rimedi: la volontà di rimedio come volontà di bellezza. Sono «tutto ciò che resta dopo che la stessa civiltà della tecnica avrà fallito.» La bellezza salverà il mondo.
DEL BELLO
di Emanuele Severino
edito da Mimesis, collana Minima/ Volti, Milano-Udine 2011
foto Antonio Canova, Le tre Grazie, 1813-1816, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo