29 luglio 2012, Fontanone del Gianicolo, Roma
«No, via, tranquilli. Mi basta questo: sapere, signori, che non è chiaro né certo neanche a voi neppur quel poco che vi viene a mano a mano determinato dalle consuetissime condizioni in cui vivete. C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo. Ma appena quest’oltre baleni negli occhi d’un ozioso come me, che si metta a osservarvi, ecco, vi smarrite, vi turbate o irritate.»
Giancarlo Fares riduce per la scena teatrale uno dei romanzi più inquieti e sorprendenti del primo quarto del Novecento: i Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Luigi Pirandello. Il romanzo svela, attraverso un monologo interiore, l’influenza decisiva che la nascente tecnologia cinematografica (e la tecnologia più in generale) avrà nel modo in cui l’uomo contemporaneo inizierà a guardare il mondo. Coglie, Pirandello, una rivoluzione sociale del punto di vista, che sarà definitivamente acquisita nel flusso di coscienza dell’uomo tecnologico, superando il positivismo ottocentesco con le sue salde certezze. L’uomo del Novecento sarà immerso in un mondo visivo mobile, opinabile, fatto di inquadrature, di primi piani, di piani-sequenza, di interruzioni repentine e altrettanto rapidi cambi di scena: modalità di osservazione che Fares traspone nella tecnica narrativa, sviluppando la storia del romanzo attraverso l’occhio di una cinepresa, che è appunto l’occhio di Serafino Gubbio, operatore cinematografico.
La presunzione di obiettività dell’occhio cinematografico, però, è solo un’illusione. «C’è un oltre in tutto», dice Pirandello. E il racconto di Fares, infatti, legge tra le righe dell’autore oltre il testo, dà vita e carattere ai personaggi, interpola percorsi romani, ricrea scene di quotidianità vivaci, che accompagnano il pubblico in una rilettura a volte spiazzante per la sua novità rispetto al detto e al non detto pirandelliano.
Fares crea un montaggio della narrazione in cui Serafino Gubbio operatore non si limita a guardare: è egli stesso guardato dal narratore e con lui dal pubblico, come se fosse diventato, proprio malgrado, il personaggio – uno tra tanti, forse neppure il protagonista – di una delle sue pellicole, dei suoi film. Serafino Gubbio si trasforma in oggetto del suo stesso abituale punto di vista. Perfino i suoi ricordi, la memoria, appaiono come sequenze d’immagini staccate su uno schermo, a volte sovraesposte, controluce, dove il biancore di un cielo rispecchia il turbamento dell’anima. Il cinema è guardato attraverso il teatro, che acquisisce a sua volta il cinema nel proprio modo di guardare.
Del monologo interiore del Serafino pirandelliano, della sua acuta e personalissima lettura della realtà, rimangono nella drammaturgia pochi fondamentali brandelli. Le numerose storie di vita contenute nel romanzo si intrecciano invece nel racconto teatrale, sviluppando ora un punto ora l’altro dell’ordito, a costruire lentamente un arazzo colorato e complesso di comportamenti umani, a volte prevedibili, altre volte apparentemente assurdi: al pubblico è lasciato il compito di darne un’interpretazione finale coerente, svelando quell’oltre, del tutto soggettivo, che è per ognuno nascosto nel flusso delle azioni e delle relazioni terrene.