drammaturgia ricci/forte
con Giuseppe Sartori, Simon Waldvogel, Anna Gualdo, Liliana Laera, Ramona Genna
movimenti Marta Bevilacqua
assistenti regia Liliana Laera, Ramona Genna
direzione tecnica Danilo Quattrociocchi
regia Stefano Ricci
produzione ricci/forte
10 settembre, La Pelanda, Roma
La Ramificazione del pidocchio ( hommage a Pier Paolo Pasolini) andato in scena per lo Short Theatre Festival, è una performance che riporta ai giorni nostri e alle nostre coscienze l’amara riflessione che il grande intellettuale italiano aveva elaborato nel suo profetico romanzo incompiuto Petrolio; il titolo stesso della pièce è un frammento dell’opera.
Il pidocchio è un parassita infestante e difficile da debellare, la sua proliferazione è spietata e invadente, così come lo sono l’omologazione e la mancanza di senso e di identità autentica che ne derivano; temi cari a Pasolini, che più di chiunque altro denunciava sul nascere il declino culturale che oggi è diventato strutturale, pienamente espresso e radicato come un enorme parassita con il dono dell’invisibilità.
In scena ci sono cinque performer in divisa bianca da tennisti, bianca e asettica è la luce che li illumina. Il pubblico resta in piedi a fare da perimetro ravvicinato a ciò che vede. Siamo in un convoglio ferroviario, un non luogo dove si rifugia un’umanità confusa e subissata da troppe informazioni.
Al posto della racchetta da tennis gli attori brandiscono un pettine anti parassita. L’inizio è una coregrafia all’unisono che sembra quasi contenere un’armonia, una pace; ma con l’arrivo del testo frammentario e poetico si capisce che tutto è andato perduto. Si parla di luoghi e di vita che non sono più reali, intervallati da informazioni scientifiche sui pidocchi, notizie di atti terroristici; parole di ambiti diversi si accavallano ma scorrono tutte uguali come su un tapis roulant. Il ritmo cresce insieme alla musica, gli attori si svestono di alcuni indumenti, si avvicinano al pubblico, gli respirano vicino, affannati, disegnano febbrilmente forse dei ricordi sul vetro delle pareti, cercano disperatamente il contatto con chi li guarda. Scelgono alcuni spettatori come partner per ballare sulle note struggenti di Mina. Sembra che ci sia un tentativo di ribellione a questa condizione di prigionia interiore reiterata. Ma il grido non arriva, e tanta disperazione implode, ne sono segno visibile i corpi degli attori che scalciano come neonati a terra riversi sulla schiena mentre le mani sono occupate a cospargersi di troppo rossetto color sangue la bocca.
«Voglio tornare a casa» dice sussultando con una smorfia da bambina la bravissima Anna Gualdo, prima che il pubblico venga accompagnato fuori; a qualcuno viene lasciata una biglia di vetro prima di uscire. Si esce storditi, con l’immagine di un fiume gonfio intrapppolato in una diga.