Breve viaggio in punta di piedi compiuto dal giovane cineasta Federico Mattioni attraverso spazi che rappresentano luoghi dell’anima femminile, prima ancora che parentesi temporali. Il linguaggio prescelto è un asindeto per immagini che evoca e stordisce. Si suggerisce con tatto e delicatezza un’istantanea esistenziale, che resta impressa agli occhi e alla memoria come moto perpetuo di un certo essere, essere donna, esserlo ora, esserlo da e per sempre. Un momento diventa condizione esistenziale con inaudita e disarmante semplicità, forse una sfida alla meccanica armonia dell’universo il solo concepirlo. Forse, istintivamente, no. Qualcosa di noto, di sempre saputo, di “naturalmente innato” traspare negli scorci che si avvicendano sullo schermo e l’inverno disegnato dai telai di periferia che pure sottrae colori, linfa e rumore alla vita, è solo un preambolo di rinascita. Bisogna aspettare. Se la vita è frutto di un’attesa, la donna è l’attesa stessa, da questa e per questa nasce. Ne è l’habitat sconfinato, onnivoro, intimamente femminile, che fagocita dalle radici e nutre al contempo, come una predestinazione cui si sa di dover in qualche modo capitolare, per un indefesso squilibrio del mondo ed un devastante bisogno di calore. Così si carica di significato antico, ontologico e fortemente emotivo ognuna delle piccole attese che qui si rivelano: un treno che non arriva, una porta che non si apre, un cliente che non si vuole fermare, una cella che tarda ad aprirsi. Anche una rondine che realmente non c’è, ma è tutta negli occhi di un mimo felice e variopinto: da sola non “porta primavera”, ma ne prepara il terreno lasciandoci intravedere una frenesia di colori oltre il bianco e nero che restano addosso a chi per un istante l’ha intercettata.
E nei volti su cui indugia lo sguardo, visitatore eppur empatico, rimane il tempo degli altri, a tratti il proprio, un pensiero, quel pensiero, che sosta un attimo o poco più, come un suono stridulo, improvviso nelle orecchie o un tramestio sordo e continuo di sottofondo. Un rigurgito di vita al termine del quale riprende l’attesa, il più intimo dei viaggi. E ben poco si può aggiungere: aspettare è avere fede, anche quando la storia condanna ad un immotivata ricerca di assoluzione e questa latita; è vedere il futuro, come solo i poeti sanno di saper fare, e alla loro arte qui si fa riferimento; è amare oltre e nonostante. Probabilmente attraverso questa via l’abiurata ed abusata libertà di cui il mondo femminile a lungo è stato orfano, sboccia in identità. E la consapevolezza si rigenera, ciclicamente. Come le stagioni cui pure il titolo rimanda: chiusa una, se ne attende un’altra. Sempre.