Speciale Tdv9 | Intervista a Opera

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Astratto ma carnale, trasfigurato dalla luce e dal suono, in uno spazio installativo. Questo è il corpo/paesaggio di Opera, il gruppo di ricerca artistica nato nel 2010 per iniziativa del regista Vincenzo Schino, qui interivistato assieme alla danzatrice e coreografa Marta Bichisao. Opera sarà presente nell’ambito della rassegna Teatri di Vetro 9 – La comunità che viene con lo spettacolo MA# MUSEO, in scena alle Carrozzerie N.O.T Venerdì 6 Novembre.

Redazione: Come avviene il processo creativo dell’opera “Ma# Museo”? Come si visualizza un dato astratto come quello dello “spazio tra due cose”, ovvero il significato dell’ideogramma cinese “MA”?

Vincenzo Schino: L’ideogramma giapponese MA viene dall’immagine di un sole che illumina attraverso una porta, una fessura.

Il concetto del MA non è stato il punto di partenza del lavoro, ma una scoperta durante la ricerca. Il nostro lavoro, e in questo caso quello di Marta ha una tensione verso l’assenza. Verso il movimento di evaporazione del corpo e dell’io attraverso la pratica artistica. Il concetto intraducibile di MA contiene anche questo e noi l’abbiamo incontrato e riconosciuto come immenso riferimento ritmico e metodologico, ma assolutamente irrappresentabile e non visualizzabile, proprio perché parliamo di forze, di silenzio e di una concezione di spazio lontana dalla nostra che lega il vuoto alla mancanza.

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Redazione: Quale carattere di astrazione viene dato al corpo nella vostra scrittura coreografica e quale rapporto ha la figura con lo spazio scenico, in particolare con la scenografia/installazione?

Marta Bichisao: La figura non è l’unico elemento che danza nello spazio scenico: scene, luci, suono e spettatori, ecco tutto questo crea la danza. La scrittura coreografica ha come dato di astrazione la possibilità del corpo di esserci o sparire, di “rarefarsi” o condensarsi, utilizzando uno spazio non propriamente convenzionale palco-platea e una vicinanza estrema con i corpi scenografici e quelli degli spettatori.

Redazione: La luce come dispositivo che trasfigura la rappresentazione è un elemento fondamentale nei vostri lavori. Come si sviluppa l’accordo tra coreografia e disegno luci? Sono due elementi complementari e/ o paralleli?

V. S.: Sono sia complementari che paralleli. I percorsi procedono a volte autonomamente, sfruttando l’aleatorietà e la sorpresa. Questa casualità conferisce vita all’organismo. Ed è una pratica ispirata dai movimenti della luce naturale nella vita quotidiana.

In alcuni momenti invece la luce funge da risuonatore del movimento, come una proiezione nello spazio delle vibrazioni del corpo. È una differenza di rapporto di tipo coreografico.

Redazione: Il museo del titolo quale richiamo concettuale o traccia semantica costituisce per lo spettatore? Come vi ponete nei riguardi della inevitabile rarefazione dell’evento scenico?

M. B. : La parola museo è stata inserita nel titolo perché è un lavoro per spazi non convenzionali, vicini o coincidenti con il museo, ma non teatrali in cui c’è una pre-disposizione del rapporto tra scena e spettatore.

Rispetto alla rarefazione (se ho ben inteso la domanda) posso dire che l’evento scenico o accadimento scenico finisce e basta. É la sua natura. É solo un momento speciale d’incontro tra persone, tra qualcuno che prepara un materiale e qualcuno che ne fruisce. É un fatto tra gli altri sul quale indubbiamente confluisce molta energia. Ma poi deve finire, e lasciare spazio ad altro.

Redazione: La campagna di promozione tramite social network di Teatri di Vetro 9 si è basata ironicamente sull’assenza all’interno del Festival di personaggi come star o intellettuali/artisti, magari già morti. È questo un evidente riferimento al passato e all’oggi. Come si rapporta invece la vostra presenza al Festival rispetto al suo titolo – «la comunità che viene» –, che ci sbilancia fortemente verso il futuro? Verso che tipo di possibile o impossibile – seguendo l’hashtag #lacomunitàchenonviene – comunità ci stiamo proiettando?

V. S. : Domanda difficile. Difficilissima.

La parola comunità è molto delicata. Conosco comunità religiose, comunità dei piccoli borghi, comunità dei centri di recupero. Penso a comunità in cui la vita di ognuno è fortemente legata a quella degli altri, i gesti e i ritmi di ognuno sono organizzati nel rispetto dei ritmi e delle esigenze comuni. In funzione di un obbiettivo o di una fede.

Penso che le modalità con cui gli artisti si rapportano tra di loro, con i diversi interlocutori istituzionali e non, e con gli spettatori non ha molto a che fare con il concetto di comunità. In questo senso il titolo del festival mi fa pensare a qualcosa che ancora non c’è, qualcosa da inventare, senza modelli.

Forse per ora l’unica vera comunità per l’arte performativa è quella che si crea durante i grandi lavori. Una comunità istantanea che come paglia secca prende fuoco e svanisce con le luci di sala alla fine dello spettacolo.

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Redazione

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