Articolo di: Giulia Belloni
Stefano Velotti è professore associato di Estetica presso l’Università “La Sapienza” di Roma e esperto di arte contemporanea, collabora con numerosi periodici a tiratura nazionale. Nei suoi testi sono rintracciabili influenze di diversa provenienza, nella costruzione di un personale percorso di ricerca volto all’indagine del fenomeno artistico e delle relative pratiche interpretative. E’ intervenuto durante il secondo incontro organizzato dal Progetto W.I.P, Sconfinamenti e Confini, dedicato all’analisi delle contaminazioni tra teatro e performance.
Giulia Belloni: Mai come oggi l’arte è a rischio, divisa tra i desideri di un pubblico costantemente in cerca di esperienze immediate e le necessità meramente comunicative (o anche economiche) degli artisti. In che modo potrebbe l’arte contemporanea conquistarsi un ruolo non ovvio, arrischiato, ma comunque valido ed efficace?
Stefano Velotti: Come ha detto lei stessa nel presentarmela, questa è una domanda da un milione di dollari, e non basterebbero molti mesi di ricerche e riflessioni per tentare una risposta plausibile. Dico ricerche e riflessioni, perché penso che esistano, in Italia e nel mondo, opere e pratiche artistiche, talvolta marginali nel “mondo dell’arte”, che potrebbero fornire dei paradigmi indispensabili per articolare una riflessione adeguata. E non si può riflettere nel vuoto, ma a partire da esperienze concrete. Qui devo però rinunciare a questo percorso, e posso dire solo qualcosa di generico, che spero non risulti troppo evasivo. Sono convinto che in tutti i lavori e le pratiche che richiedono creatività – che richiedono cioè di attingere a quel fondo indistinto e indeterminato della nostra natura umana, che è fonte di regole, ma che non è già tutto determinato da regole – c’è bisogno di raggiungere una dose di spontaneità, cioè qualcosa di non calcolabile, preventivabile, intenzionabile direttamente. Non mi riferisco a una sorta di spontaneismo immediato, tutt’altro: la spontaneità a cui alludo è frutto di un lavoro costante – un lavoro su qualcosa e a qualcosa – che non abbia come fine diretto l’effetto complessivo da ottenere o la comunicazione di contenuti, posizioni, visioni del mondo. È ovvio che le intenzioni, la riflessione, le tecniche, gli scopi devono entrare tutti in un progetto, in un lavoro. Ma ciascuno di questi elementi deve essere curato, lavorato al meglio, senza preoccuparsi troppo dell’effetto finale. È questo che rivelerà – se la rivelerà – una sua spontaneità, e quindi una sua peculiare e paradossale “necessità libera”. Il resto sono arguzie, trovate, effetti speciali, e più o meno piacevoli accompagnamenti lubrificanti degli ingranaggi della nostra esistenza. In una parola: bisogna creare le condizioni adatte – il tempo, incomprimibile, per lavorare e lasciar maturare il proprio lavoro. Una politica culturale dovrebbe forse limitarsi a questo, con tutti i rischi di fallimento che ciò comporta: offrire, preservare, ricavare tempi e spazi sottratti a una relazione consueta (quella di mezzi e fini) con se stessi, il mondo e gli altri.
G.B.: In La filosofia e le arti (2012) lei ha citato il critico d’arte americano Leo Steinberg: «Sono solo con questa cosa, e sta a me valutarla, in assenza di standard disponibili». Quanto sono importanti l’immaginazione e la creatività per un pensiero critico che voglia instaurare un dialogo proficuo con l’arte?
S.V.: Molto dipende dalla natura delle opere e dai nostri interessi. C’è chi pensa che non abbia più senso fermarsi a pensare su singole opere – oggi per lo più effimere, allo “stato gassoso”, destinate a un rapido ricambio o alla distruzione – perché quel che conterebbe sarebbe tutt’al più il loro valore sintomatico, rivelatorio di una certa tendenza della coscienza sociale, o meglio, direi, di gruppo. Ne vengono fuori solitamente delle tirate generiche tra il sociologico, lo psicoanalitico e il politico, che rientrano nel genere “articolo di costume” – apparentemente allarmanti, ma in realtà sempre rassicuranti: se infatti non ci si confronta a fondo con la singolarità di un lavoro, di un’opera (che può essere fatta naturalmente anche di “oggetti” molteplici e distribuiti nello spazio e nel tempo) si finisce per ritrovarci quel che già si sa. Ci si riconferma nel già noto avendo finto qualche avventura. Steinberg è invece per me l’esempio di un critico capace di attivare le opere nella loro singolarità ed enigmaticità, di mettersi in gioco di fronte a qualcosa di ignoto o di estraneo, di esporsi all’angoscia dell’incomprensione, invece che sorvolarle e classificarle con le categorie disponibili. Mi ha colpito che sia lui, sia Hannah Arendt (che al problema del giudizio estetico e politico ha dedicato pagine molto belle) parlino del coraggio necessario ad articolare dei giudizi. Si tratta infatti non tanto di mettere in gioco quel che si sa, ma quel che si è, che si è capaci di elaborare, e di cui bisogna assumersi la responsabilità, anche trasformando se stessi e correndo il rischio del fallimento o del delirio. Non si tratta, però, di giudizi classificatori (di solito vuoti: di fronte a delle opere, si sente dire spesso “questo è molto americano”, “questo è molto anni ‘90”, “questa è molto arte relazionale” ecc.), ma giudizi interpretativi-valutativi “spessi”, articolati, che costringono a adottare criteri non disponibili da nessuna parte, quindi a “immaginare” e “creare” standard di giudizio che solo quell’opera, quell’evento, quella circostanza mi costringono a elaborare e rielaborare, sullo sfondo della totalità indeterminata della mia esperienza. Un compito arduo, faticoso, rischioso, ma anche l’unico – credo – che legittimi un rapporto produttivo o ricettivo con la cosiddetta arte, e che possa produrre anche quello strano tipo di piacere, di gioia, che l’arte può dare, anche quando affronta questioni dolorose o scabrose.
G.B.: Oggi molti artisti ibridano generi e tecniche differenti con l’intento programmatico di scardinare le convenzioni date. All’interno di queste pratiche qual è il ruolo del corpo? Cosa ha ancora da insegnarci?
S.V.: Nonostante tutte le riflessioni sul corpo degli ultimi decenni, biopolitica inclusa, credo che ci sia ancora molto da fare e da imparare. Il corpo, mi pare, resta al centro di quella esperienza unheimlich, “perturbante”, che è propria di tutte le cose che ci sono a un tempo più intime e familiari, e più estranee (per le quali Lacan aveva forgiato il termine composto “estimità”). Ci percepiamo identici e diversi dal nostro corpo – il corpo che siamo e che abbiamo, che padroneggiamo e controlliamo, che ci sfugge e ci tradisce (ma chi è questo “ci”?), che ci corrisponde o che ci sfigura, che sentiamo dall’interno e che osserviamo dall’esterno, che è animale e culturale, attraente o repellente, femminile e maschile, che intrecciamo con quello degli altri o che proteggiamo dalle prossimità e intrusioni altrui, che è espandibile o riparabile con protesi e inserzioni di ogni genere ma che ha una flessibilità e un adattamento limitati, che è via via “materiale” di lavoro, “materiale di scarto”, soggetto e oggetto delle nostre pulsioni erotiche o mortifere, legame tra le generazioni, “documento” segnato dalla nostra storia, destino e carattere, corpo vivo e cadavere… Dunque, sì, ha ancora molto da insegnarci.
G.B.: E’ possibile considerare ogni opera d’arte riuscita una sorta di “sconfinamento”?
S.V.: Il “gioco” dell’arte è certamente un gioco di sconfinamenti, di deliri – nel senso etimologico del termine – più o meno controllati. Ogni volta dovrebbe arrischiare un’espansione della sfera del senso, sconfinando nell’insensato, per riposizionarlo all’interno di un lavoro, di un piano, di un’opera, di un evento, di un gesto. L’insensato, il non senso, abita certamente nel cuore stesso della vita, al centro delle nostre “costruzioni ausiliarie” – come diceva Fontane in Effi Briest – , dei ritmi, delle pratiche, delle recinzioni e dei confini in cui cerchiamo di condurre la nostra vita quotidiana. Ma fa incursioni altrettanto quotidiane all’interno di questa zona protetta, pragmatica e abitudinaria, e talvolta dilaga, opprimendoci in maniera intollerabile. Non credo che l’arte sia una consolazione, un dolcificante da mettere su questa presenza aspra e impensabile, ma credo però che sia un modo di guardare in faccia l’insensato da una certa distanza di sicurezza, una serie di occasioni per accettarlo, riposizionandolo, come dicevo, all’interno dei confini di una forma – porosa, labile, inquieta – ma pur sempre forma.