Stonehearst Asylum, di Brad Anderson, USA 2014, 109′ @ Festival Internazionale del Film di Roma
Il lavoro sulla propria malattia mentale, attraverso l’aiuto di un personale medico preparato e interessato ad aiutare il paziente nel suo processo di reintegrazione nella società, dovrebbe essere la base di ogni terapia volta al successo. E i metodi del dottor Lamb – Ben Kingsley –, direttore dello Stonehearst Asylum, sembrano proprio andare in questa direzione. Appaiono invece sfumati i suoi fini: veramente egli ha come obiettivo il recupero del malato e della sua libertà mediante la rielaborazione dei propri disturbi? La domanda, la cui risposta è celata soltanto nella prima parte del film, non può comunque censurare quella che a un primo sguardo sembra essere una visione estremamente progressista per gli inizi del ‘900 e in pieno contrasto con quella del precedente direttore, il dottor Salt – Micheal Caine –, che puntava all’accanimento e all’annientamento fisico-mentale del paziente attraverso pratiche sadiche, qualunque fosse il suo quadro psicopatologico. Il rovesciamento della politica all’interno del manicomio e la sua accentuata deriva utopica mettono tuttavia in crisi l’esistenza stessa dell’“asilo” tra sospetti e tentativi di riproporre l’ordine perduto.
Lungi da qualsiasi intento moralistico, Brad Anderson ci consegna un debole affresco in cui il giovane dottor E. Newgate – Jim Sturgess – è il filo rosso della vicenda e la chiave di volta per trovare la soluzione a quella che potrebbe essere una vera e propria condanna a morte per i pazienti. Il quadro propostoci da Anderson, che ha tratto il film da un racconto di E. A. Poe, ha il sapore purtroppo del già visto e il riferimento non può non essere uno dei capolavori di Martin Scorsese in cui tra l’altro era presente lo stesso Kingsley in un ruolo molto simile. L’oscura tenuta labirintica posta ai confini della campagna britannica ci fa subito saltare in mente quell’isoletta…
Stonehearst asylum si lascia vedere, ma ha l’ulteriore difetto, non di poco conto, d’irrigidirsi all’interno di un canale melò che fa traboccare nel finale – un rovesciamento dirompente che dà un ulteriore ma inutile senso all’architettura filmica sfoggiata fino a quel momento – la figura di Newgate in una doppia identità priva di qualsiasi nuova interessante istanza sia a livello filmico sia concettuale e che contrasta con il precedente svuotamento applicato da Anderson alle altre figure chiave.