Le deliranti farneticazioni di Marty, alla ricerca febbricitante di una collocazione sia fisica che psichica del suo essere/non-essere, ci catapultano nello squallore di una grigia periferia dove droga e ignoranza vanno maliziosamente a braccetto, portandosi dietro orde di esaltati ribelli prima e di inermi cadaveri poi.
Tre pneumatici sospesi su catene rappresentano una scenografia ridotta all’essenziale: un luogo in cui c’è poco e niente. Solo qualche triste storia da narrare. Marty non riesce ad aprire gli occhi e non capisce perché. Confonde pensieri e parole; non distingue i piani di sogno e realtà. Il suo corpo non risponde ad alcuno stimolo. Sente voci. Non prova emozioni. E’ un pezzo di carne buttato in qualche angolo buio di un locale indecente. É troppo da accettare per una ragazzina quindicenne, che dovrebbe essere tramortita da sogni romantici più che dalla droga. É troppo per lei che sognava di iscriversi alla facoltà di biologia e di trovare un fidanzato regolare.
A differenza di Benedetta e Alice, lei «non è dipendente» perché non si buca: sniffa. Alla loro giovane età, le tre amiche stanno già sperimentando, per un sordido intreccio di curiosità e spavalderia, il lato disumano della vita. Hanno già perso coscienza della loro dignità. Come affermano loro stesse discutendo di problematiche sociali – più per sentito dire che per effettiva consapevolezza – siamo bestie imbottite di luoghi comuni, come una canzone di Jovanotti.
Il loro linguaggio, crudo e volgare, a volte trascinato, rafforza la sensazione di avere di fronte un piccolo branco che, come nel mondo animale, cerca alleanze per sopravvivere, ma sa reagire con gli istinti più brutali in caso di aggressione.
Chi si droga difende il proprio territorio, lotta con denti e artigli per la dose quotidiana, si vende per soddisfare i propri bisogni, le proprie schiavitù. Chi si droga massacra masochisticamente il proprio corpo con tagli, buchi, piercing e tatuaggi; racconta e si racconta bugie. «Non è l’eroina che fa male, è la schifezza che ci mettono dentro». Chi si droga, però, ha anche bisogno di essere accettato, amato, supportato nelle proprie debolezze.
Alice ha crisi di panico ed attacchi d’ansia. Marty sente spesso nostalgia di casa. Benedetta è vegetariana e anoressica e ostenta una sfrontatezza che probabilmente non le appartiene. Fiochi barlumi di umanità emergono ancora dai quei corpi privati della loro bellezza, disumanizzati. Nella robotica danza che arriva ad intervallare i discorsi sempre più insensati delle adolescenti, i corpi comunicano meccanizzazione, estraniamento. Gli occhiali scuri, modello spaziale, impediscono loro di vedere cosa fanno, dove vanno, chi sono. La stessa musica contribuisce a rendere l’atmosfera alienante. I racconti riprendono come flashback discontinui e incontrollati, fino al ricordo di quel viaggio ad Amsterdam, che rappresenta l’acme di un percorso di perdita di sé iniziato con stordimenti leggeri.
Roba, anfe, trip, spid, coca: chiamatele come volete, con i nomi più trendy, ma queste droghe sono l’inizio di un incubo che finisce in un inferno. E se rimane qualcosa di bello, si tratta sicuramente di un sogno. O di un magnifico delirio.
Vincitrice del Premio Enrico Maria Salerno per la Drammaturgia 2011, quest’opera merita il riconoscimento ricevuto per la profondità del messaggio educativo, l’originalità dell’idea di Francesca Sangalli e il talento delle giovani attrici.
MITIGARE IL BUIO
Scritto e diretto da Francesca Sangalli
Con Paola Campaner, Serena Di Gregorio, Stefania Ugomari di Blas
Mercoledì 21 dicembre 2011, ore 16.00
Teatro della Casa Circondariale Rebibbia Nuovo Complesso, Roma
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bellissimo articolo!!!