La maestosa classicità della Galleria nazionale d’arte moderna – in collaborazione con la Galleria nazionale d’arte moderna di New Delhi e l’Ambasciata Indiana a Roma – ospita l’affascinante mostra The last harvest: un tuffo nell’esotico pennello di Rabindranath Tagore, poeta, drammaturgo e romanziere, di cui si festeggia il 150° anniversario dalla sua nascita.
Quattro sale di acquerelli e inchiostri su carta nepalese che sfidano l’esperienza percettiva: l’inventiva giocosa del premio Nobel per la letteratura si manifesta nell’uso dei soli colori primari, del nero e del bianco, con i quali dà vita a tutto il suo mondo interiore, sia esso onirico, reale o fantastico.
Nella prima sala Tagore racconta le inquietudini più profonde dell’animo umano, attraverso un bestiario assai simile a quello dantesco: linee rigidamente marcate, sinuose o spezzate, divengono cani e pappagalli stilizzati dallo sguardo altezzoso e compassionevole, creando una perfetta simbiosi tra l’intimità dell’uomo e l’irrazionalità animalesca.
Ma l’attenzione si posa anche sullo spettacolo delle forme naturali: la seconda sezione contiene dipinti di paesaggi, dove poche pennellate decise, dalle tonalità scure, creano forme di alberi contorte e nervose.Nonostante l’assenza della profondità e la piattezza cromatica, data dalle ampie campiture di colori freddi, Tagore riesce a costruire un’architettura nel disegno; fa vibrare quegli spazi: il nero e il giallo, o il rosso e il blu scuro, toccandosi, si mescolano nell’occhio del visitatore, in una sorta di danza armoniosa, e compongono cupe foreste, fiumi scroscianti e limpidi.
L’espressività geometrica di Rabindranath è lo strumento per stimolare le nostre meditazioni interiori, le riflessioni spirituali più pure: la ricerca pittorica sfocia, così, nell’analisi del corpo umano, non come forma anatomica, ma come gestualità. I volti, soprattutto femminili, e i tratti fisici – incorniciati sempre in tonalità prevalentemente scure – sono definiti da linee oramai eleganti ed esotiche: le pennellate ocra e beige, fitte ma dolci, si caricano di sentimenti di fragilità, di delicatezza, di grazia, ma anche di pietà, di derisione.
Accanto a quadri raffiguranti la madre con il figlio, troviamo anche donne malinconiche, consapevoli della loro irrequietezza, e uomini buffi e sprezzanti, simili a totem o figure apotropaiche: sono incisioni semplici, catturate nell’immortalità della pittura come memento per il genere umano. I primi piani costituiscono l’elemento peculiare delle ultime due sale: Tagore, attraverso immagini delicate di mezzi busti, profili, enormi volti frontalmente fissati in fluenti capelli corvini, racconta dei concetti, spiega la storia della sua terra; quelli da lui dipinti sono gli sguardi forti, autoritari, vivi e mai assenti, di chi combatte per degli ideali. In questo slancio all’infinito, però, il poeta-pittore non esagera mai: racchiude e incanala le speranze, che trapelano dall’incarnato dei visi, in linee morbide e in colori sempre scuri, tanto che i dettagli si notano solo se ci si avvicina al quadro.
È una pittura che viene fuori dall’oscurità, non per urlare al mondo, ma per far riflettere: occorre fermarsi a lungo per comprenderla e quando si fissa l’iride cristallina di quei volti si ha solo l’irrefrenabile desiderio di specchiarsi e riconoscersi in essi.
TAGORE: THE LAST HARVEST
acquerelli e inchiostri su carta di Rabindranath Tagore
Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea, dal 29 marzo al 27 maggio
foto Rabindranath Tagore, inchiostro colorato su carta, 64,2 x 50,6 cm, c. 1930-1931, coll. Rabindra Bhavana