Sul palco del Teatro Palladium, in occasione del festival Teatri di Vetro, la Carrozzeria Orfeo porta in scena Robe dell’altro mondo, una commedia che mischia con abilità grottesco, cinismo e riferimenti pop, trascinando lo spettatore, tra risate e commozione, in una riflessione quanto mai attuale su ciò che ci circonda.
Robe dell’altro mondo
Drammaturgia: Gabriele di Luca
Regia: Alessandro Tedeschi, Gabriele di Luca, Massimiliano Setti, Roberto Capaldo
Interpreti: Gabriele di Luca, Giulia Maulucci, Massimiliano Setti, Roberto Capaldo
Musiche originali: Massimiliano Setti
Luci: Diego Sacchi
Costumi: Nicola Marsano e Giovanni Ferrara
Prodotto da: Carrozzeria Orfeo
Dove: Teatro Palladium
Quando: 28 aprile 2013
«Le parole sono importanti», urlava Nanni Moretti in Palombella Rossa: un’espressione diventata quasi un mantra, quando galleggiare nell’incrementato proliferare di voci, opinioni, chiacchiere e giudizi affrettati è diventato difficile quanto resistere alle Sirene di Ulisse. Le parole sono importanti, ed è evidente che abbiano anche un peso. Le parole più pesanti, poi, sono quelle che hanno l’aspetto più leggero, innocuo. Espressioni che entrano nel linguaggio comune, che portano nascoste nella loro semplicità un carico di impliciti avallamenti a comportamenti dannosi e qualunquisti. «E allora?», si chiedono i personaggi di Robe dell’altro mondo, spesso; si interrogano – ci chiedono ragione – di un modo di dire così vacuo, ma in grado di ammantare con un velo pietoso un modo di fare che comporta la più bieca mediocrità, l’accettazione passiva e arrendevole di tutto ciò che accade intorno, come se, alla fine, non ci riguardasse poi più di tanto.
Una commedia, tragica come solo ogni ottima commedia sa essere, che gioca finemente con le parole e scopre le gambe ai luoghi comuni, con grazia e irriverenza, lasciandoci intravedere il piacere meschino che probabilmente proviamo nel lasciarci trascinare dagli eventi, nel ritirarci in presunte torri d’avorio o a curare il nostro orticello, solo quando il tempo delle comari fuori dall’osteria è finito e il gioco si è fatto troppo pericoloso per impicciarsi.
Sul palco il tempo si intreccia in vari modi, e intreccia le storie dei personaggi in una matassa intricata, sorprendente nella sua plausibilità. Sul palco si chiacchiera del più e del meno, si muore per un equivoco, o per un presunto ideale. Si muore per una diceria, si brucia per un dato statistico. Sul palco si muore perché nella vita si muore, e spesso in modo patetico e imbarazzante. Si ride prima di vedere la morte, si ride dei vizi degli esseri umani, si ride della loro mentalità semplicistica e calcolatrice, che causa i danni più irreparabili.
Sullo sfondo di un’umanità corrotta, che non si spinge più nemmeno alle vette sadiche dei grandi antieroi tragici, ma si accontenta di una mediocrità scoperta, esibita e spesso lodata, assistiamo al girare a vuoto dei meccanismi del potere, alla mano lunga e stanca del Vaticano, all’asservimento scoperto delle parole attraverso i mezzi dialettici del cosiddetto quarto potere – che del potere ha conservato solo le velleità –, alla manipolazione dell’opinione pubblica, docilmente piegata a un inutile ma efficace revanscismo.
Il lavoro sulle parole è fine ed elaborato, e non si accontenta di una comicità debole, ma pretende un impegno attivo da parte del pubblico. Il culmine è toccato durante il monologo di uno dei personaggi, un politicante di mestiere, in cui l’accelerazione del ritmo, attraverso l’accavallarsi di allitterazioni e assonanze, sfocia in una scena di incredibile intensità: retorica e pathos si stringono la mano prima di crollare a terra. Eppure il significato profondo si avverte più nei pesanti non detti, nei grandi assenti – in primis, la speranza e la solidarietà – mentre il mondo sembra sprofondare in una crisi onnicomprensiva, che non risparmia nemmeno l’infanzia, già avvelenata dai pregiudizi colorati di ostilità dei “grandi”.
Protagonisti silenziosi e efficaci, misteriosi e proteiformi, portatori di piccoli e grandi miracoli e di giuste punizioni, sono gli Alieni. Enigma irrisolto; Sfinge che ci pone davanti alla nostra rappresentazione chiedendoci ragione di ciò che siamo: l’Alieno è l’Altro, sempre lontano, incomprensibile, sul margine. Una presenza tenue e sul punto di sparire, soffocata dall’egotismo meschino, accostabile non tanto a parole o con veemenza logica, ma con qualcosa che forse abbiamo irrimediabilmente perso.