Il 26 Aprile al Teatro Palladium nell’ambito di Teatri di Vetro Festival è andato in scena “Col Tempo”, opera teatrale di una giovane compagnia romana, Clinica Mammut, che nasce dall’unione artistica di Alessandra di Lernia e Salvo Lombardo. La formazione romana presenta un ampio progetto intitolato Memento mori – icone della fine, una trilogia di spettacoli di cui “Col Tempo”, che ha debuttato al Zoom Festival di Scandicci nel 2012, ne è il primo capitolo.
Testo: Alessandra di Lernia Regia: Salvo Lombardo Con: Alessandra di Lernia Ambiente sonoro: Andrea Balsamo Luci e fonica: Valerio Modesti Assistente alla regia: Gloria Anastasi Foto di scena: Simona Caleo Progetto grafico: Marta Renzi Riprese video: Isabella Caffè, Massimiliano Di Franca, Gianluca Gualtieri26 Aprile 2013 – Teatri di Vetro, Palladium, Roma
Info:
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Il tempo, in fin dei conti, non è altro che un buco nelle calze di una donna dove il sensuale, l’erotico diventa immagine di un tempo casuale, distorto e irregolare; tuttavia, quella serie di strappi ci sembra segua improvvisamente una forma schematica e prefissata, come se si dovesse attenere a una rigida disposizione che fa reinserire il tempo nella sua consueta veste cronometrica e cronologica.
Sulla scena il corpo di Alessandra di Lernia è ferito dall’incudine del tempo, dalla caducità dell’esistenza scandita dall’incombere insorabile del quotidiano, dell’abituale: tutto diventa simbolo di una vera e propria palpitazione esistenziale, della lacerazione del non appartenere al proprio tempo, di una memoria che non ha più nulla di nostalgico. L’era della globalizzazione trascina con sé tutte le abitudini e, anche se si è spinti ogni giorno ad aprirsi al nuovo, si è ancora trattenuti dal poter simpatizzare con un parrucchiere cinese che non conosce nemmeno che cosa significa acconciare i capelli ricci. Sebbene l’ostinazione nei confronti della modernità porta la donna – circondata dalla prigione temporale dei ferri da stiro disposti l’uno accanto all’altro – a fare dei passi indietro nei confronti del mondo, è l’abitudinarietà che la costringe a ricercarne il senso: così anche la sola vista della merda di un cane sull’asfalto del marciapiede la cattura tanto da non poter fare a meno di analizzarla fino ad esserne disgustata.
L’ambiente sonoro di Andrea Balsamo accompagna i movimenti sempre uguali e ritmicamente ripetuti del corpo dell’attrice: il dinamismo delle gambe ricrea la corsa di una signora stanca che rincorre il bus urlando all’autista di aspettarla, così l’autobus si ferma, ma, una volta sopra, il prezzo da pagare è comunque alto. La voce narrante, resa efficacemente dall’alternarsi dei due microfoni, riporta alla luce sia il fervore giovanile della donna per la politica, al quale lei risponde con una risata dal sarcasmo pietrificante, sia il terribile ricordo delle due zitelle dalle mani biancastre che, sebbene non gli permettessero mai di entrare nel loro bagno, amavano vivere nel sudiciume, nello stesso sporco in cui ora è finita lei stessa.
Sin dall’inizio l’attrice non sembra mai essere sola sul palco, bensì accompagnata da un interlocutore silenzioso che non è altro che un vaso nel quale sono piantati dei fiori rossi, lanciato infine a terra quasi a voler richiamare per l’ultima volta l’attenzione dello spettatore su un tazzina di caffè che ha tutto il sapore sartriano della necessità e della contingenza. Al bancone del bar questa volta non prenderà la solita tazzina di caffè macchiato, bensì “un caffè al vetro, americano, freddo, senza zucchero e perché no? Con un po’ di sale sul bordo!”. Si siederà, quindi, in disparte per berlo su un tavolino del bar sola, col tempo.