Teatropersona: AURE

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Al Teatro Vascello, nelle date di 14 e 15 maggio 2013, va in scena l’ultima opera della Trilogia del Silenzio, AURE, ideata dalla compagnia Teatropersona: un viaggio esplorativo negli antri del subcosciente ancora non imprigionato dalla categorizzazione formale che comporta l’uso del linguaggio.

AURE

regia di: Alessandro Serra

con: Valentina Salerno, Francesco Pennacchia, Chiara Michelini

14 e 15 maggio 2013 – Teatro Vascello, Roma.

Vai al sito di Teatropersona

 

AURE è lo spettacolo conclusivo – preceduto da Beckett Box e Il trattato dei manichini – di quella che la compagnia Teatropersona ha intitolato la Trilogia del Silenzio. Dalla biografia della compagnia, fondata nel 1999 da Alessandro Serra e Valentina Salerno, appare evidente come, già a partire dalla loro formazione, la scelta sia stata di dirigersi oltre il linguaggio verbale. Il frutto di questo percorso, AURE appunto, destabilizza come solo la comunicazione non verbale sa fare.

La scena è spoglia, a riempirla solo un libro su un tavolo ed una sedia. Ma gli oggetti di scena, anche quei pochi scelti, sembrano accessori; l’uso che ne viene fatto dagli attori – i mobili solo momentaneamente spostati o utilizzati non come usualmente si conviene – manifesta quanto poco siano sostanziali alla significatività della scena. Anzi, sembra quasi di poter dire che i personaggi evitino il tavolo e la sedia e siano invece spinti ad agire negli spazi vuoti della scena teatrale. Il vuoto è il vero spazio scenico ed è lì che si creano le tensioni che colpiscono lo spettatore: questo il primo elemento dell’allontanamento da una rappresentazione realista, ma che comporta sicuramente l’avvicinamento ad una trasmissione reale. Per citare M. Millon: «Lo spazio vuoto è ciò che consente non solo di percorrere il mondo geografico e storico, ma di passare senza interruzione dal fuori al dentro, dall’universo realistico, oggettivo, ai fatti soggettivi dell’immaginario, dalla temporalità frammentaria del reale alla temporalità fluida della coscienza».

E similmente avviene per le altre forme di comunicazione: per quanto riguarda la luminosità, è la gestione delle ombre, più che delle luci, ad essere significativa. L’ombra, che signoreggia sul palcoscenico, nasconde colpi di scena e stimola l’immaginazione. L’illuminazione è portata invece dagli attori, che con questa giocano a nascondere o rivelare immagini o, ancora, a  crearne di nuove. Sono i loro movimenti a far luce.

Ma più di tutto, manifesta questa tendenza alla scarnificazione, la totale mancanza di linguaggio verbale. L’obiettivo sembra quello di abolire il frastuono dei significanti sovrapposti, in virtù del significante minimo, l’estremamente imprescindibile, che, sottoposto alla perizia artigianale del lavoro, conduce ad un significato ben più diretto. «Come il lampo o un bagliore di candela,/ i tuoi occhi, non già il rumore, mi destarono» scriveva John Donne ed è la stessa comunicazione sottile che stimola la gestualità di Valentina Salerno, Francesco Pennacchia e Chiara Michelini. I loro gesti risultano significativi e toccanti non in quanto veicoli di concetti già definiti e usualmente ad essi associabili in un sistema di segni condiviso, ma in quanto portatori di una vitalità più interiore comune ad attore e spettatore che li avvicina più di quanto qualsiasi testo possa fare.

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Redazione

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