Dal 17 Ottobre al 5 Novembre, in esclusiva romana al Nuovo Cinema Aquila, è stato proiettato The act of killing, il primo film dell’americano Joshua Oppenheimer. Il documentario racconta le confessioni dei killer indonesiani che, in seguito al colpo di stato di Suharto del 1965, furono protagonisti della spietata repressione dell’opposizione al regime.
The act of killing, di Joshua Oppenheimer, GB 2012, 115’
Montaggio: Nils Pagh Andersen, Erik Anderson, Charlotte Munch Bengtsen, Janus Billeskov Jansen, Ariadna Fatjό-Vilas, Mariko Montpetit
Fotografia: Carlos Arango de Montis, Lars Skree
Produttore esecutivo: Werner Herzog
Musiche: Elin Øyen Vister
Anwar Congo è un uomo apparentemente sereno e spensierato, che trascorre la sua vecchiaia tra la compagnia degli amici storici e l’affetto di figli e nipoti. Niente sembra tormentarlo di quel passato atroce che racconta impassibile alla cinepresa: da killer “di professione” sotto la dittatura di Suharto, ha sterminato centinaia di persone – oppositori più o meno reali – nei modi più spietati, tutti indistintamente accusati, talvolta frettolosamente, di aver aderito al comunismo. Non solo un’assenza di turbamento, ma addirittura una certa orgogliosa fierezza ci sembra di cogliere nell’agghiacciante placidità con cui Anwar descrive nel dettaglio le tecniche di tortura e di omicidio utilizzate dagli esecutori al servizio di Suharto.
Nel procedere del documentario, questa figura di uomo marmoreo ed eroico si sgretola. La pratica della confessione, pur nell’atmosfera glaciale in cui si dispiega, lascia dischiudere e gradualmente emergere le angosce sedimentate in quasi cinquant’anni di vita trascorsi nel tentativo sistematico di rimuovere gli orrendi crimini commessi, ora attraverso la musica, talvolta anche con l’uso di droghe e alcol, o costruendo alibi per la propria coscienza. Anwar ha cercato di dimenticare, tuttavia ogni notte gli incubi lo tormentano, forse il rimorso, oppure – dice – la vendetta dei morti innocenti.
La cornice narrativa in cui si inscrive il racconto dei killer è il progetto cinematografico di “mettere in scena” – proprio come nei film hollywoodiani da lui e i suoi compagni tanto amati in gioventù – le dinamiche di quegli eccidi, l’organizzazione delle torture e i metodi di esecuzione. In una simulazione filmica sconcertante, resa ancor più agghiacciante da una certa atmosfera autocelebrativa di fondo, Anwar e i suoi compagni ex-killer ci introducono nel mondo di quella follia che oggi descrivono come fedele obbedienza agli ordini del regime, e al contempo come pulsione sadica, manifestando in questa contraddizione l’angosciante conflitto interiore che illusoriamente nascondono a se stessi.
L’opera prima di Oppenheimer si distingue per coraggio e intuizione, vantando tra l’altro nomi come Werner Herzog ed Errol Morris tra i produttori esecutivi, a testimonianza della notevole qualità del progetto. Vincente la scelta di non inserire alcun commento o cornice narrativa, eccezion fatta per le scarne informazioni iniziali sul contesto delle riprese e le intenzioni della ricerca: opzione che sembra motivata dalla volontà di far parlare direttamente la sconvolgente testimonianza visiva, o semmai i silenzi – fortemente eloquenti – che contrassegnano qua e là i racconti dei protagonisti. Il tutto è reso più efficace dalla complessità degli elementi in gioco, che rendono difficile un giudizio rigoroso e definitivo: non riusciamo ad essere troppo severi con questi individui, perché cogliamo nella “normalità” della loro violenza la prossimità della follia, la nostra stessa implicazione – in quanto esseri umani – in quel sadismo, accompagnato dal dolore di chi non riesce a comprendere il male che abita misteriosamente la nostra natura.
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