Regia Abel Ferrara (1995)
Sceneggiatura Nicholas St. John
Fotografia Ken Kelsch
Montaggio Mayin Lo
Musiche Joe Delia
Interpreti Lili Taylor (Kathleen Conklin), Christopher Walken (Peina), Annabella Sciorra (Casanova), Paul Calderon (il Professore), Edie Falco (Jean)
Durata 82 min
Addiction, in italiano, significa essere dipendenti da una droga: provare la mancanza di quel preciso stato psico-fisico che la sostanza ci fa provare. Per soddisfare questa dipendenza dobbiamo consumare lo stupefacente, usufruirne e, nel caso del film di Ferrara, iniettarcelo per via endovenosa; alla fine del suo effetto non potremo far altro che sentirci privati di esso e, in questa nuova condizione di mancanza, daremo spazio a una nuova ricerca che, giunta finalmente all’obiettivo, ci consentirà di allietare nuovamente la nostra anima. Un circolo vizioso dunque, in cui il concetto di Astinenza si configura come il riempimento di un nulla eternamente insoddisfatto. Il termine addiction assume così piccole sfumature caratteristiche: è sempre una addiCtion, ovvero un’addizione, un inserimento di elementi esterni, naturali o chimici che siano, nel nostro corpo corrotto di clienti insaziabili. Allo stesso tempo l’addiction, è un fantasmatico additive. Crediamo, infatti, che la sostanza migliori le nostre attitudini sia fisiche che mentali.
The Addiction, mette in scena la tossicodipendenza, in maniera assolutamente originale, unendola a elementi esistenziali e filosofici. Kathleen Conklin, studentessa di filosofia, una sera, uscendo di casa, incontra una erotico vampira dai tratti somatici fortemente maschili. Si chiama Casanova e, nel giro di pochi secondi, morderà la protagonista per trasformarla non solo in una vampira, ma in un essere dotato di una estrema vocazione riflessiva. Kathleen comincia così un esistenziale viaggio introspettivo e razionale che si esplica e si sovrappone a una riflessione archeologica sul male divisa nella sua possibilità dicotomica, in un male sfacciatamente banale e un male totalmente radicale. Non interessa sapere quale sia la chiara posizione della protagonista; ciò che è da notare è come, nel film, le immagini si aprano a un paragone con fotografie di campi di concentramento, foto provenienti dai lager nazisti o dai campi di sterminio della guerra in Bosnia. La droga del male spinge al male stesso. Una proposta davvero forte e quasi provocatoria quella di Ferrara, il quale azzarda il confronto tra le immagini per porre la domanda filosofica sull’ontologia del male attraverso un’antropologia del vampiro inteso e castigato come (ni)-ente, in una sorta di altrimenti che morto eppure maledettamente esistente.
L’incontro con il saggio Peina, una sorta di ex-vampiro mistagogo di una vita in cui non si ostenta la diversità vampiresca, condurrà Kathleen ad una parziale presa di coscienza della propria fondante condizione di morta vivente. Un Peina, interpretato da Christopher Walken e che mostra alla protagonista il libro Naked Lunch di W. Burroughs, esponente della beat generation, ed effigie vivente in quegli anni del rapporto tra droga e opere d’arte. Uno strano e simbolico incrocio dato che Naked Lunch oltre ad affrontare il tema della droga come The Addiction, è stato portato sul grande schermo, in maniera esemplare quattro anni prima, da David Cronenberg con il quale aveva lavorato lo stesso Walken nel film The Dead Zone (1983). La differenza tra i due film è tuttavia, sostanziale. Mentre nel film di Ferrara ci troviamo di fronte a una filosofia di vita, esistenzialmente spinta, caratterizzata da un impianto di uscita dalla tossicodipendenza autoriflessiva, metafisica e nichilista, in Naked Lunch (1991) lo stile di vita dissennato da drogato del protagonista Bill Lee conduce a un’esistenza poietico-letteraria immanente alla sua dissoluta corporeità.
Nella paradossalità di un simposio in cui i commensali sono tutti vampiri e le vittime soltanto essere umani e nella decisione di un suicidio, dettato dalla scoperta del male interno agli uomini, la morte, compiuta attraverso l’accettazione del rito della comunione, nel tentativo d’imitare il gesto-sacrificio di Gesù, si configura, in realtà, come un contraddittorio ritorno alla vita, proprio in virtù dell’assaporamento del corpo unicum di Cristo e tramite la comprensione e l’ingiunzione dell’azione cristologica su se stessi. L’impianto teologico dona, insomma, nuova vita nell’inferno maligno terrestre.
“La ricerca del sollievo dal vizio, quando il vizio è, in realtà, l’unico sollievo” è frase che ci demanda, nella sua non virtuosa circolarità, gran parte dell’attività dell’essere umano e della sua complessità, da porre in rapporto al soddisfacimento del godimento e alla realizzazione del desiderio di un essere sempre mancante.