Regia: Alexander Payne
Sceneggiatura: Alexander Payne, Nat Faxon, Jim Rash
Fotografia: Phedon Papamichael
Montaggio: Kevin Tent
Produzione: Ad Hominem Enterprises
Cast: George Clooney, Shailene Woodley, Amara Miller, Beau Bridges, Robert Forster, Judy Greer, Matthew Lillar
Paese: Usa 2011
Durata: 115’
“Perché tutte le famiglie sono degli arcipelaghi: tante isole, tutte vicine, che tendono naturalmente ad allontanarsi, pur essendo, da qualche parte, giù nella terra, unite”.
Matt King (George Clooney) è un avvocato di mezza età, benestante, totalmente immerso nel lavoro; ha poco tempo da dedicare alla sua famiglia, alla bella moglie Elizabeth, donna energica e combattiva, ma che ormai sente distante, e alle due figlie: Alexandra, la maggiore, sensibile e ribelle, e Scottie, la più piccola, vivace e vulnerabile. Vivono alle Hawaii, la terra di coloro che furono, per moltissime generazioni, i nobili antenati di Matt: da loro egli ha ottenuto oltre ad una cospicua ricchezza, una bellissima distesa di terra vergine sull’isola Kalua; egli ne è responsabile legale, pur dovendo condividere l’eredità con una miriade di parenti sparsi per l’intero l’arcipelago. Prossimo alla vendita del pregiato terreno, Mark si ritrova all’improvviso a dover fronteggiare un drammatico imprevisto: Elizabeth ha un grave incidente durante un giro di sci nautico ed entra in coma. E’ irreversibile. Mark si risveglia, a metà della propria vita con due figlie, quasi estranee, da tirare su, e una moglie dalla insospettata doppia vita, da dover perdonare e lasciar andare. E’ un mettere insieme passato e futuro, da capo.
Ci sono alcuni tipi di storie che guidano e condizionano la prospettiva di chi le affronta e segnano da sole le priorità d’interpretazione. In particolare: “Ci sono alcuni tipi di storie che dettano esse stesse lo stile con cui vogliono essere raccontate, e non viceversa”. Questa ne è un esempio. Così dice, con grande semplicità, Alexandre Payne, regista di The Descendants, (Paradiso amaro, in italia), come se il dramma profondo, dolce e dignitoso, che dipinge nel suo ultimo lavoro non potesse conoscere altra forma se non quella con cui ce l’ha presentato. Il film, tratto dal libro “Eredi di un mondo sbagliato” di Kaui Hart Hemmings, e co-sceneggiato dallo stesso Payne, vanta già tre Golden Globes assegnati proprio questo mese (miglior film drammatico, miglior attore in film drammatico, miglior sceneggiatura) ed è tutt’ora in corsa per gli Oscar con cinque nomination (film, attore protagonista, sceneggiatura non originale, regia e montaggio).
Piccolo gioiello drammaturgico, in cui nulla è forzato e tutto scorre come deve e come non deve, la pellicola combina situazioni radicali a dinamiche, intime e malinconiche, offrendoci una dimensione di bellezza esterna e di devastazione interiore come non se ne incontrano frequentemente sul grande schermo. Che Payne amasse questa tipologia di affreschi è testimoniato dai suoi precedenti lavori, A proposito di Shmidt (2002) e Sideways: in viaggio con Jack (2004); ma qui c’è un affondo ulteriore, un’intenzione precisa e voglia di maturità. D’altronde egli stesso è il primo a dichiararlo: “Da Edipo in poi, la persona media è sempre posta in situazioni critiche”, drammatiche o comiche che siano, “ci si misura sempre con qualcosa di radicale ed io non faccio eccezione”.
Così la direzione prescelta è netta: si esplorano la vita, la morte e la famiglia, nucleo magnetico da cui tutto parte e verso cui tutto ritorna; lo si fa in punta di piedi, ma con tutte le scomodità del caso, perché il terreno è fragile ed esige responsabilità: chi ne parla lo deve fare con onestà completa, senza smussare gli angoli; la mezza verità non appartiene a questi territori, nemmeno volendo, e ogni menzogna, una volta consumata, diventa difficile da perdonare -come sperimenta lo stesso Clooney nei panni di Matt-.
Dopo un flash iniziale, che ritrae una donna bella e felice in corsa sul mare, il film si apre in medias res: il dramma è già successo, l’assenza è già prolungata. Manca la madre, tocca al padre. Anche se stavolta, il padre in questione non sa da che parte ri-cominciare e ogni mossa, parola o intenzione sembra essere quella sbagliata. Perché la vita sorprende, e non è detto che lo faccia in positivo; se si è pronti bene, se non lo si è, bene uguale: s’impara facendo e sbagliando, s’impara amando. Ciò vale tanto per un marito tradito, quanto per un padre a digiuno di figli, e Matt ne è la prova. Ognuno di noi ha l’altro. E dopo? Basta.
Tutto così semplice da dire e così difficile da fare. E forse proprio questo ne fa una buona storia per un film di carattere: non in se stessa, ma per come viene trasmessa; diventa interessante, quasi fosse la prima volta che ce la raccontano.
Merito delle scelte registiche che dimostrano tatto, intelligenza e misura, a partire dall’ambientazione, scelta, conoscendo Payne, non a caso: le Hawaii sono un paese a se stante, un piccolo stato fiero tutore della propria terra e delle sue tradizioni, “provinciale” in questo, come lo ha definito le stesso regista, e, al contempo, “assolutamente cosmopolita”, se si allarga lo sguardo alla mole di turisti che attira. Eppure il paradiso hawaiano non dispensa dai dolori e le sue bellezze rigogliose non consolano più della sabbia di un deserto. Piove anche laggiù, nelle isole dei sogni: d’altronde, quando si piange, si piange ovunque alla stessa maniera.
Tuttavia non si scava ad libitum nel dolore; mai; lo si tiene sempre sotto controllo con i dialoghi, semplici e umanissimi, al punto da essere quasi ordinari, e con l’ironia, costante, involontaria, straniante, che fa tirare il fiato. I sorrisi sono voluti, mai aggirati; e lo stesso Clooney mantiene determinati guizzi tra il comico e lo spaesato che paradossalmente e inevitabilmente, ci avvicinano al dramma più di qualunque altra cosa. C’è l’accortezza di “non spingersi oltre” pur evitando di restare in superficie; e ciò non impedisce un continuo “saliscendi” di emozioni che si affastellano, nette, veloci e crude, proprio come capita “normalmente”. Nel montaggio delle immagini, l’alternanza di cielo, volti trasparenti, distese di oceano e terra, parla in modo elegante di una mai facile riconciliazione con chi si ama e ci ha messo a dura prova.
Il cast è buono, ben diretto e ben assortito: la bella Shailene Woodley spicca nel ruolo della diciassettenne figlia di Matt, spesso più matura e decisa del padre; mentre Clooney, dismessi i panni del divo, è un eroico pater familias, scalzo, spettinato e in bermuda, fotografato nel faticoso tentativo di dover fare e dire la cosa giusta al momento giusto, ed è apprezzabile tanto più perché è lui, proprio lui e non un altro a confrontarsi con un simile ruolo; e il pubblico, non abituato, applaude e si commuove.
Forse i padri, come dicono, non sono tutti uguali. Forse invece, dice Payne, sì.
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