33 anni dopo la trasposizione cinematografica di David Lynch, arriva al Teatro Ghione The Elephant Man, un’alienante apologia sull’essere e l’apparire.
The Elephant Man
Scritto e diretto da: Giancarlo Marinelli
Con: Ivana Monti, Daniele Liotti, Rosario Coppolino, Debora Caprioglio
Scene: Andrea Bianchi/Forlani
Costumi: Marta Crisolini Malatesta
Disegno luci:Daniele Davino
Dal 7 al 17 febbraio 2013 – Teatro Ghione, Roma
«Io non sono un elefante, non sono un animale! Sono un essere umano, un… uomo».
Un urlo disperato si infrange sulla scena. L’urlo di uomo che non sa più chi è. Di un uomo che ha perso la sua identità, scippata, incatenata, schiacciata da chi non ha occhi per guardare al di là di ciò che vede. Di ciò che sente. Gli uomini hanno sempre paura di ciò che non capiscono. Parole amare che John Merrick rivive quotidianamente sulla sua pelle. Quella pelle maledetta che non gli permette di essere oltre che apparire. Quella pelle che ha fatto si che la sua essenza e la sua apparenza si fondessero non in un abbraccio umano, ma in un grido di dolore fin dalla sua nascita. Quella pelle che gli ha permesso di essere conosciuto al mondo solo come The elephant man.
Era il 1980 quando il regista statunitense David Lynch porta sul grande schermo la tragedia realmente accaduta di John Merrick, giovane uomo che sul finire dell’Ottocento fu costretto a sopravvivere con una raccapricciante anomalia genetica che gli deformò completamente il volto e il resto del corpo. L’uomo elefante, era questo il cinico nomignolo che lo fece conoscere al mondo intero; quel mondo fatto di curiosi, di gente senza scrupoli, avida e grottesca che si compiaceva a usarlo, già proprio così, a usarlo, come fenomeno da baraccone. Merrick era un freak, e i suoi show erano pause soffocanti fra le risa e gli scherzi di chi si compiaceva di simili spettacoli disumani. E la sua casa, una prigione.
Ma The Elephant Man è anche storia di un’amicizia, storia di altruismo e di solidarietà, storia di chi non ha avuto niente, ma che gioisce di quel poco che è riuscito a conquistare. Un’amicizia che il riadattamento teatrale – unico nella sua storia – di Giancarlo Marinelli fa vibrare in modo sapiente e raffinato, commuovendo e incantando l’intera platea, senza far rimpiangere il celebre film.
È il rapporto umano, scevro da ogni forma di egoismo, ipocrisia e di menzogna, fra John e il dottor Trevis il cuore dello spettacolo. Ma è anche storia di un dono. Quel dono che un giovane chirurgo in una Londra malfamata e derelitta, fra gli omicidi di Jack lo Squartatore e la corruzione dilagante, fece all’Uomo Elefante, salvandolo dalle torture dei freak show. E dono che proprio Merrick darà al suo salvatore e che il cinema e ora il teatro hanno voluto rendere immortale: la sovversione di un sistema fatto di vuote e nulle apparenze, di perfezioni false e tendenziose, di ostentazioni artificiali e futili.
Perché un uomo elefante può esistere in ognuno di noi. L’uomo elefante esiste nel bambino timido e poco spavaldo. Nel giovane che preferisce leggere piuttosto che fumare. C’è un John Merrick in chi non ha le extension e le unghie finte. In chi non veste rigorosamente firmato o in chi semplicemente vuole distinguersi dalla massa.
Siamo tutti uomini elefanti, e lo saremo fino a quando arriveranno quegli occhi che sapranno guardare anche ciò che non vedono.