Tortoise|Villa Ada
Artista: Tortoise
Dove: Villa Ada
Quando: 16 luglio 2016
Foto report: Ivan Novelli
A distanza di pochi mesi dalla data al Monk i Tortoise tornano a Roma per presentare la loro ultima fatica, The Catastrophist, questa volta nella suggestiva location di Villa Ada.
La premessa con i Tortoise è solamente una: accettare di non assistere a nulla di prevedibile e convenzionale. La scaletta è variegata e il ruolo dei componenti della band viene determinato dal pezzo che verrà suonato di volta in volta (tutti suonano quasi tutto).
Visivamente sorprende la presenza di due batterie in prima linea che si fronteggiano, alternano e incontrano, nell’esecuzione dei diversi brani (singolari gli intrecci tra John Herndon, John McEntire e Dan Bitney).
Il concerto si apre con la minacciosa Shake hands with danger che trasporta da subito lo spettatore in una dimensione estetica caratterizzata dalla ricerca di una complessità ritmica che allo stesso tempo non rinuncia a scelte minimaliste, spesso tipiche del post-rock.
La scenografia è particolarmente asciutta, non ci sono visual o luci stroboscopiche ad accompagnare e ad arricchire l’esibizione. Ciò che conta è la musica, nella definizione pura del termine.
Se l’impressione iniziale è quella di trovarsi immersi in un variegato e frammentato universo di generi (free jazz, ambient, minimalismo di stampo newyorkese e melodie à la spaghetti western) ben presto la consapevolezza diventerà quella di esplorare una dimensione stilistica originale e unica.
Un particolare coinvolgimento emotivo si raggiunge con il crescendo esplosivo di At odds with logic in cui Herndon alla batteria esibisce tutta la propria tecnica e potenza espressiva (il volto è quasi trasfigurato dalle smorfie).
Seguono la delicata progressione di accordi di The clearing fills, una narcotica Yonder Blue (in cui per pochi secondi fa la comparsa il campione vocale di Georgia Hubley degli Yo la tengo) e la classica I set my face to the hillside con le sue chitarre morriconiane e richiami house.
Tra i classici emerge anche un’inaspettata e insolitamente scura Along the banks of rivers che ci riporta ad una delle opere seminali del post-rock tutto, Millions now living will never die.
In chiusura l’immancabile Seneca con il suo rituale battito di mani, la cui figura ritmica risulta incomprensibile e quasi impossibile da seguire per il pubblico.
Unico rammarico è di non riuscire ad ascoltare Tin cans and twine che solo recentemente è stata riproposta in alcuni live a distanza di vent’anni.