Francesco d’Assisi fu l’homo novus del suo tempo, il portatore di uno dei più imponenti rovesciamenti dei valori etico-religiosi mai compiuti. Egli volle esprimere la santità nel fare, nell’operare, quindi intese l’innalzamento spirituale a Dio come realizzantesi sul terreno storico, nell’ambiente reale della finitezza delle creature. Il confronto con la spiritualità francescana divenne un appello quasi perentorio per gli artisti e i poeti del XIII secolo, e Assisi fu «il cantiere» a cui convennero i novatores. Massimo Cacciari, nel suo ultimo libro edito da Adelphi, intitolato Doppio Ritratto. San Francesco in Dante e Giotto, prende in esame gli esempi più eminenti.
Da una parte, Dante vide in Francesco il simbolo del rinnovamento politico e spirituale a cui egli anelava avidamente: ne tracciò un sublime ritratto – per altro inseparabile da quello di San Domenico – incentrato sulle mistiche nozze con Povertà. Francesco è un nuovo redentore, che predica ai dissennati uomini del suo tempo e lotta con decisione contro gli ostacoli che la Chiesa pone all’approvazione della sua Regola.
Dall’altra, Giotto permeò di tutt’altra letizia il suo ciclo di affreschi. Emerge qui lo spirito del Cantico di frate sole che Dante tralasciò: e in questo spirito si dischiude una nuova idea di natura, una natura che loda e si eleva a Dio esattamente come noi uomini. Francesco loda insieme alla natura e si fa prossimo ad ogni ente del creato. E ciononostante anche questi affreschi mantengono una netta e decisa intenzione politica che sarebbe un errore trascurare. La genuflessione di Francesco e l’approvazione senza remora da parte del Papa della Regola vogliono rappresentare «la soluzione di ogni contrasto fra fraternitas spirituale e ecclesia reale». Carità e mistica si intrecciano con la reverenza all’autorità papale.
Ma entrambi questi ritratti «proprio perché sono poderose e tendenziose ricostruzioni, espressione di progetti religiosi, teologici, politici» tradiscono parzialmente la figura del Santo. Il terzo ritratto, allora, lo traccia Cacciari. La chiave di volta è il paradossale connubio paupertas-hilaritas. Di che tipo di povertà si tratta? Della povertà in spirito, la prima delle Beatitudini, che rende il povero nientemeno che erede del regno di Dio. E’ una trasvalutazione: «Povero non è il bisognoso ma il perfetto. […] Il suo regno non è quello dove i poveri svaniscono, ma dove trionfano.» Il povero infatti si svuota di sé, della sua sostanza irrinunciabile, del suo possesso più geloso. Ma si svuota non per auto-annichilimento, bensì per amore, cioè per accogliere ogni ente: «povero non è colui che manca, ma colui che tutto ‘ha come fratello e sorella’, e cioè senza avere, che di tutto gode, nel senso del frui Deo. […] Esperienza della povertà equivale ad esperienza della divinità dell’ente». La privazione come arricchimento, qui sta la rivoluzione. E’ così che il povero entra in comunione con Dio – l’unica relazione propria possibile – ripercorrendo la via dell’incarnazione del Logos, cioè dello svuotarsi di Dio rendendosi, per amore di Povertà, storico e finito, scendendo «nel fango, nelle tenebre e nell’ombra della morte». E in virtù di questa risurrezione con e per ogni ente, il povero raggiunge la sua pienezza: ecco la letizia! «In entrambi i grandiosi ‘ritratti’ sembra assente l’aspetto più profondo e inquietante della mistica di Francesco […] la ‘vittoria’ che emerge dal colmo stesso della miseria, che si annuncia lietamente nella sconfitta è paradosso non rappresentabile.»
DOPPIO RITRATTO. San Francesco in Dante e Giotto
di Massimo Cacciari,
edito da Adelphi, Milano, 2012,
foto San Francesco (anteriore al 1224, particolare). Sacro Speco, Subiaco.