Nell’ambito del 5° Festival del Cinema Kurdo, è stata proiettato al Nuovo Cinema Aquila un documentario di rara bellezza che narra la storia di un pugno di donne sconvolte dal massacro di un’intera generazione di uomini. Durante la dittatura di Saddam Hussein furono oltre centomila i kurdi iracheni e sciiti perseguitati e uccisi. Molti scomparvero letteralmente nel nulla per ventiquattro lunghi anni, fino al ritrovamento delle fosse comuni del regime. Tutte le mie madri di Ebrahim Saeedi attraverso gli occhi di queste donne vestite di nero narra l’attesa disperata di chi sopravvisse.
Tutte le mie madri/All my mothers di Ebrahim Saeedi, Iran 2010, 52’
Sceneggiatura: Zahawi Sanjavi
Il documentario Ebrahim Saaedi sembra porsi innanzitutto come una dimostrazione pratica del concetto di “cine-pugno” teorizzato da Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, che si proponeva di scuotere lo spettatore dall’assorbimento passivo della storia colpendolo con la forza violenta delle immagini, celata soprattutto nei primi piani ravvicinati. Spogliato di tutti i suoi valori morali di divulgazione storica, Tutte le mie madri è innanzitutto una grandiosa opera cinematografica che, unita ad una storia umana di rara tristezza, riesce a porsi come forma di testimonianza di straordinaria efficacia.
Il documentario racconta come il regime di Saddam Hussein in Iraq abbia perseguitato migliaia di kurdi iracheni e sciiti. Circa 182mila persone persero la vita e più di quattromila villaggi rurali vennero completamente distrutti. Della maggior parte delle vittime, soprattutto degli uomini adulti, si perse completamente ogni traccia per ventiquattro lunghissimi anni.
Il racconto però non parte dalla storia, ma dalle conseguenze che questa ha provocato. Le vicende sono narrate seguendo il filo delle rughe scavate sui volti di madri, mogli, sorelle e figli degli uomini spariti nel nulla, aprendo così una finestra sulla loro straziante quotidianità fatta principalmente d’assenza. Un’intera generazione di uomini è stata spazzata via, ma le loro donne hanno reagito con diverse forme di coraggio per tenere in vita flebili e testarde speranze. Giovani donne hanno rifiutato di sposarsi, solo perché la tradizione imponeva che la scelta del marito spettasse al padre o a un fratello maggiore. Altre ricostruiscono da sole le case, facendo il lavoro di due uomini. Un’anziana madre dorme invece da venti anni sul ciglio della strada, in attesa di vedervi il figlio spuntare. Storie diverse che Saeedi racconta con una maestria cinematografica eccezionale, aprendo uno spiraglio su queste esistenze senza mai forzarle, ascoltando le loro lacrime in silenzio, goccia dopo goccia. Il nero svolazzante dei loro veli sembra uscire dallo schermo per sferzare lo spettatore e raccontargli il sapore doloroso dell’incertezza.
Come ogni storia ben raccontata il finale raggiunge straordinari picchi di commozione – che non è mai artificiosa ma frutto solo di una triste realtà – quando vengono scoperte le fosse comuni del regime di Saddam. Gli scheletri degli uomini strappati dal Kirkuk, da Suleymanya, Dehok ed Ebril, fanno ritorno a casa in una bara.
L’esplosione lancinante del dolore sfocia nella fine di un’attesa come un respiro trattenuto troppo a lungo.
Ora le donne hanno una tomba su cui piangere ma il vuoto lasciato da un’intera generazione non potrà essere colmato che dal ricordo.