V edizione CascinafarsettiArt "The Memory Remains"

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Franz Werfel scriveva che «l’unico vero possesso dell’uomo è nelle cose che ha perduto», quindi la memoria e i suoi ricordi ci appartengono nel momento in cui non li possediamo più. Meglio dimenticare per avere la certezza di un bagaglio mentale. Perché dunque l’evocazione? Perché a volte accade quel qualcosa che ci permette di ritrovare le cose e di perderle quindi nello stesso istante? Possediamo ricordi o perdiamo memoria? L’analisi andrebbe fatta su ciò che davvero resta.

 Per il Centro Sperimentale di Fotografia Adams la ricostruzione della nostra memoria è una conferma della nostra identità, e la ricostruzione di un nostro ricordo non è altro che il desiderio di ricongiungerci con quel tempo che è passato. La fotografia è, il più delle volte, considerata testimonianza di memorie e momenti trascorsi. Il concorso, The Memory remains, all’interno della quinta edizione del CascinafarsettiArt- fotografia e non solo… , ha invitato i partecipanti a riflettere sulla tematica della memoria intesa come “traduzione”: il ricordo rivivrà e non solo nel riflesso di se stesso.Pensieri di Cartapesta ha incontrato i tre finalisti del concorso, Margherita Bertoldo, Stefano Berti e Chiara Pagliuca, indagando sul tipo di “traduzione” utilizzata per far rivivere i ricordi.

Margherita Bertoldo, vincitrice del concorso, lega il suo ricordo alla malattia, e la conseguente morte, della nonna a cui era molto legata, e a quella sensazione di vuoto che ne è derivata.

Titolo: Il ricordo del non ricordo… “E ora che non ci sei più, è il vuoto a ogni gradino”

Andrea Palazzi/ Ricordare una perdita di memoria. Ricordare per non lasciarsi dimenticare da se stessi. Ricordare per non permettere al tempo di deteriorare la vita vissuta. Una casa che si svuota, proprio come fa la memoria quando subisce alcune malattie, una mancanza fisica importante, quella di tua nonna in questo caso, che crea deterioramento nelle memorie altrui. «E ora che non ci sei più è il vuoto a ogni gradino», perché è proprio la mancanza di qualcosa che permette di capirne l’importanza. Quanti sorrisi non siamo capaci di ricordare senza le persone che ce li hanno creati? Sicuramente un progetto carico di emozione, molto personale, figlio evidentemente di un bisogno di non lasciare andare alcune cose. Ti sei scoperta molto non si può negare. Che effetto fa mettersi a nudo in questo modo?

 M. B./ Ricordo che da piccola ero molto brava a scrivere poesie e racconti, con i quali esprimevo le mie emozioni. Con il tempo è venuta meno la capacità di scrivere e la mia forma di espressione più reale è diventata la fotografia. Lascio che siano le mie foto a parlare per me. La malattia e la morte di mia nonna mi hanno molto scosso, sia perché era l’ultima nonna in vita, così giovanile e viaggiatrice, sia perché vedevo aggravarsi negli anni la sua demenza senile. Quando era in vita ho sempre cercato di sminuire l’entità della sua malattia davanti a tutti e a me stessa; ho passato mesi senza salire quelle scale che mi portavano dalla nonna, come per convincermi che stesse bene. Alla sua morte, improvvisa, ero a casa reduce da un’operazione al ginocchio e quindi inabile. L’impotenza, il senso di colpevolezza per non poter fare niente e per non essermi goduta gli ultimi anni con lei, per non esserle stata tanto vicina, mi hanno addolorata e frustrata, facendomi chiudere in me stessa. Ho lasciato ancora una volta che le fotografie parlassero per me, per raccontare il dolore, il senso di vuoto, come provò, credo, Montale nella sua poesia «Ho sceso, dandoti il braccio», da me citata, scritta per la morte di sua moglie. Ha preso forma in me, quindi, l’idea di lasciare una testimonianza tangibile del mio affetto per la nonna, un dono rivolto a lei, e comprensibile da chi ha avuto i propri cari affetti da questa malattia, o, più in generale, da chi ha vissuto perdite. L’idea poi di rappresentare la malattia della nonna attraverso le immagini visionarie e disperate dell’ospedale del Lido di Venezia, in stato di totale abbandono, è stato un omaggio verso lo stesso ospedale e i dipendenti che ci lavoravano (come mio papà). Con gli anni la fotografia è diventata per me, oltre a un modo per esprimere me stessa e il mio mondo, un mezzo per denunciare situazioni e dare voce alle realtà poco conosciute, difficili, sia in Italia che all’estero. Non pensavo sinceramente di rendere pubblica la mia idea del lavoro su mia nonna, proprio perché è una cosa personale. Non l’avevo detto a nessuno..nemmeno ai soci del mio fotoclub! Quando però mi sono imbattuta nel bando del concorso “The memory remains” ho pensato che fosse uno stimolo per dare corpo, sistemare e migliorare quel lavoro…e così ho fatto. Arrivare prima al concorso è stata una gioia incredibile, cento volte più grande di quella provata per la vittoria in altri concorsi, proprio per la natura del mio lavoro, che è stato capito e apprezzato. Non nascondo che essermi messa a nudo in pubblico, anche a causa dell’esposizione delle foto alla premiazione, non è stato facile, ma sono davvero orgogliosa di averlo fatto, e non posso che ringraziare la giuria, così competente e sensibile, per aver premiato il mio lavoro.

Stefano Berti nel suo progetto descrive la difficoltà di elaborazione dei ricordi e l’importanza dell’osservazione attenta per riportarli alla luce. I particolari, che sembrano insignificanti, possono davvero farci capire, soprattutto nella fotografia.

Titolo: La vita è un rebus.

A. P./ La vita è un rebus, e su questo siamo tutti d’accordo. Il tuo progetto a mio parere sfiora la genialità. Perfetto equilibrio tra reale e surreale, tra materiale e immateriale. La formula che hai utilizzato per spolverare i ricordi è stata davvero azzeccata. La settimana enigmistica, con le sue difficoltà di elaborazione, e i ricordi, che subiscono la stessa difficoltà. E così per rievocare bisogna passare attraverso vari step, vari stadi, gradini mentali, aprire cassetti. Quando si cerca di risolvere un rebus si guarda l’immagine, cercando riferimenti con le lettere e i numeri al suo interno. Così come quando si osserva una foto, si cerca di scovare quei particolari che possano mettere in luce il nostro ricordo, possano farci arrivare alla soluzione adatta. Bisogna saper guardare con attenzione, altrimenti si rischia di perdere i particolari, determinanti senza ombra di dubbio. La tua è stata una vera e propria “traduzione”, o sbaglio?

S. B./ Condivido la tua descrizione della mia “traduzione”. Penso che la memoria possa essere la nostra gabbia o la nostra piattaforma di lancio, può essere una grande molla oppure una colla appiccicosissima dalla quale non ti stacchi più e ci muori dentro. Con queste foto ho cercato di dire che il lavoro di lettura, interpretazione e comprensione della nostra memoria è indispensabile per poter andare avanti e fare progetti, costruire una vita che prende forza dalla memoria e non ne rimane schiava sterile. Nelle foto vecchie che ho inserito nelle pagine della settimana enigmistica ci sono dei particolari che mi avevano colpito tantissimo e che mi hanno spinto a realizzare il progetto in quel modo: cosa ci fa quel prete che recita il  breviario nella foto del rebus, e la nonna nascosta dietro al bambino che alza la palla, o perché farsi una foto tessera insieme al fratello? Il fatto è che ci sono dei particolari che ci caratterizzano ed altri che ci giudicano: se io ti parlo e scopro che sei balbuziente è un grande particolare, molto evidente, fa parte di te, ma non ti definisce, se invece tua moglie ti trova nelle tasche una ricevuta d’albergo in cui non sei stato con lei è un piccolissimo particolare ma che apre uno scenario enorme e che ti giudica per come sei veramente. In fondo il nostro lavoro nella vita è sciogliere quei rebus che tutti i giorni incontriamo mentre siamo con gli altri, per poi poter camminare nella strada che abbiamo liberamente scelto di percorrere.

Chiara Pagliuca traduce i suoi ricordi attraverso la memoria involontaria, protagonista del pensiero di Marcel Proust nel suo À la recherche du temps perdu.

Titolo: Interpretazione de À la recherche du temps perdu di Marcel Proust – Episodio della Madeleine 

A. P./Un progetto molto interessante, perché, quasi con certezza, riavvicina lo spettatore ai suoi ricordi più intimi, quelli legati ai gusti, agli odori. Di solito sono ricordi fanciulleschi, adolescenziali, legati alle prime volte, alle scoperte che sconvolgono i sensi. Personalmente , osservando il tuo progetto, sono tornato nella sala da pranzo di mia nonna, con in bocca il buon sapore delle caramelle Rossana. Chiara Pagliuca invece dove è andata a finire, anzi a tornare, pensando e interpretando Marcel Proust?

C. P./Marcel Proust nella sua opera attua una ricerca per ritrovare il tempo perduto, ovvero il passato che è nascosto da qualche parte nel cervello. Il miglior metodo per ritornare al passato è tramite la memoria involontaria, ovvero grazie all’utilizzo dei sensi primari, ad esempio l’olfatto o come nel suo caso il gusto di una Maddalena che, nonostante il grigiore della sua vita, l’ha ricondotto a un momento dell’infanzia felice.

Per quanto riguarda la mia mente, o meglio le mie memorie involontarie, ricordo quando tempo fa passando davanti ad una pasticceria sentii un odore talmente immenso che mi giunse fino al cervello, e per qualche vago canale, si era ripresentata nella mia mente la figura di mia nonna che tirava fuori dal forno una teglia di biscotti e poneva su di essi lo zucchero a velo, che da bambina mi sembrava neve.

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Autore

Andrea Palazzi

"Il passato è presente in ogni futuro". Andrea Palazzi scrive quello che i suoi occhi osservano e quello che la sua epidermide del cuore assorbe. Nelle sue recensioni traspare la continua ricerca tra l'esatta posizione delle cose e la loro giusta dimensione. Per lui l'arte è l'interazione emotiva tra chi crea e chi osserva.

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  1. Pingback: La fotografia di Sofia Bucci | Pensieri di cartapesta

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