Il pavimento è coperto di scarpe femminili: moltissime paia ben allineate, ma anche mucchi di scarpe accatastate, scarpe di ogni tipo e colore, scarpe con e senza tacchi, scarpe usurate, eleganti, da passeggio. In mezzo a tanto organizzato disordine, le gambe nude di due donne sdraiate si gingillano in aria, felici di esistere e di appartenere a corpi femminili. Ma, se le mille scarpe e le gambe nude e tornite rimandano, all’inizio, a un femminile solare, apertamente seduttivo e universalmente accettato, poco più sotto, là, proprio là, in mezzo alle gambe, le donne racchiudono un mistero di erotismo ben più profondo e complesso: la vagina. Sarà quest’ultima la vera e indiscussa protagonista della scena, fino allo spegnersi delle luci.
Nascosta agli occhi stessi della donna a cui appartiene, la vagina è il luogo del corpo forse più imbarazzante e meno conosciuto: si presta perciò a fraintendimenti, mistificazioni, disconoscimento o a un sovraccarico di significati proiettivi. Parlare della vagina implica uno sforzo di sincerità e di fantasia, una fantasia che arrivi in profondità, anche laddove lo sguardo non può avere accesso.
Molti fattori costruiscono nel tempo, spesso traumaticamente, il rapporto della donna col suo corpo e, in particolare, col suo organo più nascosto e sensibile. Anastasia Astolfi e Alessandra Fallucchi danno vita, con ironia e partecipazione, a donne realmente intervistate in occasioni e contesti diversi (alcuni brani sono tratti da I monologhi della vagina di Eve Ensler). I loro racconti mostrano quanta potenza e centralità possa conquistare la genitalità femminile, quando lasciata libera di esprimersi.
Per tante donne il piacere è una conquista tardiva, è il conseguimento di una nuova dimensione di dignità; il dolore più lancinante, più che alla fisiologia degli organi riproduttivi, sembra in molti casi legato a una violazione subita; le emanazioni involontarie di fluidi che accompagnano il mestruo o l’eccitazione possono diventare per alcune motivo di orrore per la propria sessualità e decretare la morte affettiva e l’autoisolamento; le lusinghe o i tabù della società nei confronti del sesso femminile possono influenzare, nel bene o nel male, l’intero andamento di una vita.
Uno stretto legame sembra associare la vagina con l’inconscio. La scarpa è un simbolo che collega la qualità del femminile all’atto di contenere, di accogliere in sé e allo stesso tempo di farsi carico e di procedere oltre: ma, al di là del simbolismo, il coinvolgimento di un inconscio individuale e collettivo trapela dagli effetti che le parole e le immagini dello spettacolo hanno sugli astanti. Mentre le due attrici portano in scena storie disparate, alcune divertenti, altre drammatiche, di donne che raccontano di sé e della parte del loro corpo più segreta, il pubblico reagisce in modo disomogeneo e imprevedibile. E’ uno spettacolo nello spettacolo lasciarsi sorprendere dalle risate irrefrenabili e imbarazzate degli uomini in sala (di alcuni uomini e non di altri, a seconda dei momenti), a sottolineare una battuta piuttosto che un’altra; subito dopo sono alcune donne, a scoppiare a ridere senza volere, senza poterlo evitare, mentre altre restano quasi immalinconite, ascoltando il medesimo racconto, le stesse identiche parole.
Che si tratti della storia di una donna violentata, mutilata, annichilita dai tabù oppure di un’altra, felice di poter essere madre, divertita o stupita dell’incredibile bellezza delle proprie parti intime, il pubblico, in quasi religioso ascolto, avverte sensazioni variegate, non riducibili a un’unica etichetta o a una rigida catalogazione. Ogni donna contiene molte voci e molte storie, molti punti di vista, spesso tra loro contrastanti, come bene suggerisce la regia, che impiega le due attrici come alter-ego dialoganti nell’interpretazione di tutti i personaggi.
E, ancora, all’interno di ogni donna che parla del proprio sé corporeo e inconfessato, c’è il caos dell’eterno mucchio di scarpe, su cui continua ad inciampare, ma c’è anche l’ordine, la simmetria, la specularità fra destra e sinistra, che caratterizza sia la partizione dello spazio scenico, sia il corpo femminile, nelle sue parti esteriori, più facilmente visibili, ma anche in quelle per cui occorre piegarsi ed utilizzare uno specchio, se le si vuole arrivare conoscere.
Guardarsi la vagina con uno specchio diventa, allo stesso tempo, un atto di conoscenza e un gesto impagabile di autoironia.
IN PRINCIPIO ERA LA’ SOTTO
produzione TeatroinMovimento
regia Anastasia Astolfi
con Anastasia Astolfi e Alessandra Fallucchi
Teatro Argot Studio, 27 marzo – 1 aprile 2012