creazione e regia Vladimir Olshansky
con Vladimir Olshansky, Carlo Decio e Yuri Olshansky
produzione Olshansky “Art De La Joie”, Compagnie Théâtrale de Paris France
17 settembre 2016, Teatro Vascello, Roma
Il Teatro Vascello ha aperto la stagione con lo spettacolo di un prestigioso ospite, Vladimir Olshansky, che ha creato, diretto ed interpretato Strange games. Il celebre artista è il clown protagonista dell’acclamatissimo Slava Snow Show di Slava Polunin, guest artist del Cirque du Soleil, promotore della professionalità della figura del clown ospedaliero e fondatore in Italia di “Soccorso clown”.
Strange Games è una commedia metafisica giocata dagli attori-clown Vladimir Olshansky, Yuri Olshansky e Carlo Decio che, in un’ora e mezza di teatro dell’assurdo, mimo corporeo, tradizione circense francese e russa con una spolverata di danza, arti visive e musica, trasportano lo spettatore in una dimensione tanto più surreale quanto mai familiare e attuale.
Lo spazio scenico è una sorta di non-luogo, una casa disadorna eppure piena, discarica e custodia della compagine umana, una casa vuota che sta per essere abbandonata o abitata: non è ancora dato saperlo e forse sarebbe prematuro. È solo l’inizio. Gli elementi scenografici – la spazzatura – sono disseminati per l’intero teatro, si diramano in ogni dove: lo spazio scenico dunque si amplia fisicamente e metaforicamente, dalla ribalta sconfina nella platea fino ad identificarsi con gli spettatori e includere sia lo sporco del nostro luogo interiore sia quello del luogo esterno. Proprio questo sporco dal pubblico viene passato in consegna agli attori: con un gancio drammaturgico ingegnoso e funzionale, i due clown imbianchini – Yuri Olshansky e Carlo Decio – riordinano il teatro facendosi aiutare dagli spettatori, con il doppio profitto di sciogliere il ghiaccio e conquistare immediatamente l’attenzione di un pubblico poco avvezzo al genere teatrale in questione attraverso l’espediente del gioco.
Sarà loro il compito di sgombrare il nostro spazio mediante il catartico abbandono alla risata mentre il compito dello spettatore sarà quello di accogliere o respingere le immagini e le riflessioni proposte.
Tema dell’incipit è l’attesa e la preparazione dello spazio drammaturgico e scenico attraverso la pulizia, intesa anche come purificazione.
Con la forza evocativa tipica del linguaggio metaforico e onirico del teatro del non-detto ma dell’agito, attraverso le acque della comicità, gli spettatori trasportati dai due clown-imbianchini come da due traghettatori, giungono alle rive della tragi-commedia umana di cui il terzo clown-lavoratore – Vladimir Olshansky – si fa portavoce.
Se la coppia comica di clown, attraverso la ridicolizzazione, racconta la necessità di associarsi dell’essere umano e il rapporto conflittuale tra collaborazione e prevaricazione, il clown-lavoratore racconta l’estasi e l’abisso della solitudine, l’altalena emotiva tra la vita e la morte.
Immersi in questa bolla magica, fatta di poesia, disperazione, stupore, paura, incanto, fallimento, entusiasmo, depressione e amore, adulti e bambini si fanno complici del gioco a metà tra il timore e l’aspettativa di esser sorpresi dalle trovate ingegnose dei tre clown o dalle emozioni che il loro agire è capace di provocare. Nonostante il rischio scelgono di fidarsi e abbandonarsi al viaggio. In un susseguirsi di quadri diversi e inaspettati, arricchiti da musiche dal forte impatto emotivo, le gag della coppia di clown si alternano alle tragicomiche e romantiche vicende del clown-lavoratore, in una sintesi poetica sempre più sconcertante nella sua verità. L’assenza di parola rende l’interlocutore più disponibile all’ascolto facilitando la comprensione profonda dei temi proposti. La comunicazione non si ferma al livello epidermico proprio della razionalità che, compreso il significato più o meno univoco di una parola, non pone l’individuo in reale ascolto. Come la cecità può affinare altre capacità sensoriali, qui l’illogico, il surreale, l’espressività dei veicoli comunicativi solleticano tanto il plesso solare da sfuggire alla mediazione razionale legata alla parola lasciando incantati e pieni di un qualcosa che non può esser capito e descritto ma solo vissuto.
L’onirico della clownerie rende l’individuo libero da catalogazioni razionali a favore dell’intuito, della fantasia, giungendo ad un livello di comunicazione più profondo ed efficace del realismo e aprendo la mente ad una rosa di infinite interpretazioni possibili: lo spettatore per una volta non è passivo ascoltatore raziocinante, ma libero e recettivo creatore. È una situazione del tutto extra-ordinaria, soprattutto per il pubblico italiano, dunque degna di interesse. Sono tante le sollecitazioni sensoriali, emotive e gli spunti di riflessione che Strange Games provoca su più livelli, da rendere partecipi e attivi persino i bambini più piccoli che durante la performance tempestavano i genitori di domande, le stesse che ognuno di noi si poneva mentalmente, domande che non hanno risposte ma possono solo sollecitarne ulteriori. E se da un lato questa sia la dimostrazione che non siamo abituati alla ritualità teatrale che necessita del silenzio interiore ed esterno per svolgersi, dall’altro lato attesta che lo spettacolo non solo non annoia, anzi, lascia un segno in ognuno dei presenti più per ciò che non se ne è compreso, per quel che resta di indecifrabile eppure indelebile, che per le interpretazioni intellettuali azzardabili.
<< Un teatro che si capisce è la prima garanzia non essere teatro >>, sosteneva Carmelo Bene.
Il fatto che, esattamente come lo strano gioco che è la vita, non sia possibile comprendere “Strange Games” ma solo sentirlo e viverlo e che questo faccia germogliare in noi il dubbio, perciò la vera conoscenza, è la dimostrazione del potere catartico di questo riuscitissimo esperimento teatrale. Con il suo sguardo attento e amorevole Vladimir Olshansky dipinge l’animo umano con semplicità struggente, la poesia spietata del suo linguaggio surreale e onirico tocca e scardina l’immaginario collettivo con forza delicata e disarmante riuscendo a cogliere e restituire l’essenza della realtà e a raccontare con partecipe commozione l’assurdo caleidoscopio di bellezze e brutture che è la condizione umana.
Per lasciare ancora spazio ad una citazione adatta all’occasione: << Nel teatro del mondo la parte più ingrata, tristemente comica, toccò all’uomo. >>, di Alessandro Morandotti.