21 gennaio – 25 febbraio 2017
Nero Gallery
Via Castruccio Castracane 9
Dal martedì alla domenica dalle 16.00 alle 20.00
Donnadieux è un artista originario di Parigi che lavora su carta di formato quadrato di dimensioni variabili, usando solo la matita, senza alcun bozzetto preparatorio. Le sue opere sono ispirate al mondo onirico e non hanno titolo, tranne il termine mantic – che rimanda all’idea di visione – e un numero. Gli abbiamo rivolto alcune domande per conoscere meglio il suo lavoro.
La caratteristica che collega tutti i tuoi lavori è quella di lusingare l’occhio e la mente in modo tranquillamente inquietante. Come descriveresti il tuo processo creativo dall’ideazione all’esecuzione materiale?
“I nostri corpi ricevono la vita dal profondo del nulla”. La grafite è un mezzo che mi permette di raggiugnere quest’entità invisibile che vaga al di là del percepibile, il “mondo delle storie”, come lo definiscono i nativi americani. Come un rito, io riempio con una mina di grafite con una scrittura nervosa l’interezza della mia pagina bianca, descrivendo una spirale. E’ in questa materia oscura e in in uno stato psichico vicino al silenzio che imparo a vedere delle forme antropomorfiche. “Bisogna essere veggente, farsi veggente”. L’essenziale del mio lavoro consiste nel cancellare l’oscurità per far nascere la chiarezza. “Dipingo le cose dietro le cose”. La riserve, la luce è portatrice di senso e la grafite, l’ombra che resta, veicola delle sensazioni enigmatiche. Allora la sostanza e l’ideale si compenetrano. “Forma è vuoto, vuoto è forma”. Sono l’artigiano o la vittima di questa lotta costante tra l’ombra e la luce.
Osservando i tuoi quadri appesi al muro, è impossibile non notare che un’attenzione ossessiva per il dettaglio coesiste paradossalmente con un favore per l’indeterminato. Cosa pensi di questo gioco?
Il diavolo è nei dettagli. Ho un gusto pronunciato per le tenebre. Lo sconosciuto della creazione in cui mi immergo mi rimanda costantemente agli enigmi dell’umanità: l’amore che ci lega e la morte impeccabile. L’estasi e il terrore di essere vivi. Dobbiamo vivere sapendo che moriremo. La vita è un paradosso. Esso è indeterminabile. I misteri e il non senso sono parte integrante dell’esistenza.
Non ho potuto fare a meno di notare un’affinità con il lavoro di Alfred Kubin. Qual è il tuo rapporto con la tradizione artistica e con il mondo dell’arte di oggi?
Come per Alfred Kubin, delle carenze affettive hanno marcato la mia giovane età. Nessuno sfugge alla sua infanzia. La mia relazione con la storia dell’arte è passionale. Devo dimenticare tutta l’influenza tradizionale, moderna e contemporanea, allo scopo di trovare la mia anima. Ma sempre ci sono le ultime opere che resistono nel mio inconscio. Quelle che mi hanno stregato. Le ultime tele di cui non sono ancora riuscito a disfarmi sono le due versioni dell’Adorazione del bambino di Filippo Lippi e la galleria degli Uffizi di Firenze. L’organizzazione della profondità è affascinante. Il vuoto costeggia la forma da un punto di vista visionario. Sono cresciuto nella banlieue parigina, l’orizzonte lontano è stato il vicino lotto di edifici. Ho pesato il carico delle formiche, sono evaso nelle vene di una foglia d’erba e nelle nervature dei suoi rami. Le sostanze psichedeliche mi hanno insegnato più tardi che una montagna conosce l’ampiezza della fibra di un filo d’erba. Ciò che colpisce nelle opere di Filippo Lippi. Microcosmo e macrocosmo sono un solo e stesso spirito.