Sei drammaturghi, con sei studi scenici, ci restituiscono bagliori dalla primavera araba. Bagliori, non a caso. Perché ogni racconto è indiretto, e cioè filtrato dall’occhio e dal modo di sentire occidentale. Wake up! punta sulla polifonia delle voci e dei linguaggi, calandoli in un viaggio itinerante tra le sale del Teatro Argentina e dandoci, così, coerentemente con la pluralità di sguardi, anche punti diversi nello spazio.
In questa varietà di prospettive balza in evidenza, e non poteva essere diversamente, innanzitutto il modo in cui in Occidente abbiamo seguito i germogli di questa primavera. Sono i cellulari, i tweet, i social network e, più in generale, internet a farla da padrone. Questo si intravede nel dialogo, continuamente interrotto dai tweet, di Non le dispiace se bevo, di Renato Gabrielli. Ma in In Tahrir di Riccardo Fazi– Muta Imago – diventa, addirittura, veicolo narrativo. È proprio il mezzo, computer o cellulare che sia, a diventare il tramite per mettere in scena il 2 febbraio del 2011. Il racconto è immerso in uno scambio frammentato di messaggi che si sovrappongono, per noi, ai rumori della piazza e arrivano, poi, all’appello finale «A chiunque sia in grado di camminare: venite a Tahrir».
A parte il racconto di Michele Santeramo, La Bandiera, che resta monade a sé stante e piccolo incantevole esempio di narrazione, gli altri testi fanno, in modo diverso, i conti con la distanza. Chi in modo più riflessivo, come Alessandro Berti in Scorrere, una rivoluzione origliata, dove un giovane europeo, nella sua immobilità, riflette sul fatto che tutti abbiamo bisogno di scorrere, di muoverci e quindi mutare; chi in modo più ironico come Magdalena Barile in The protester, dove la figura eletta dal Time, nelle sue varie forme, personaggio dell’anno 2011, sembra balzare fuori dalla copertina per turbare gli animi di chi, in realtà, non la capisce fino in fondo e, forse, l’ascolta solo per il tempo della colazione.
Forse, però, un’immagine resta su tutte: l’albero divelto sul palco dell’Argentina. In Maledetta Primavera di Enrico Castellani – Babilonia Teatri – la distanza diventa assenza. In scena c’è solo un gioco di luci che illumina, sempre da punti diversi, un albero spezzato mentre una voce off, una madre, racconta il proprio mondo, così lontano dalle rivolte del Medio Oriente. I petali di mandorlo cadono. Il mondo, forse, sta cambiando. Noi stiamo qui a parlare e la maledetta primavera fiorisce nell’ignoranza di «chi cazzo ne sa cosa vuol dire non poter studiare e che cos’è la paura».