YOU JOKED US ALL, ANDY!

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La Galleria Nazionale d’Arte Moderna propone l’esposizione di alcune opere poco conosciute del conclamato maestro della pop art seguendo il tema principale della comunicazione mediatica cartacea. Prime pagine di giornali dalle dimensioni titaniche e articoli sui più disparati argomenti, dalla tragedia del terremoto all’ultimo flirt di Madonna, circondano, anzi, bombardano, peraltro in modo piuttosto inquietante, il visitatore della mostra.

Un’occasione d’oro per riflettere seriamente su un personaggio dell’arte che ha fatto della burla la filosofia della sua opera. Mi spiego: Andy Warhol è il cavallo di Troia del sistema moderno. Con le sue zuppe, i suoi detersivi, le sue Liz Taylor e i suoi aforismi deliranti si è fatto consapevolmente additare come il più grande esaltatore e paladino difensore della cosiddetta società dei consumi di massa, un americano doc orgoglioso della strada intrapresa dal suo paese. L’America ne è andata fiera, mentre lui, nello sbeffeggiarla, se la rideva di gusto.

Tutti gabbati. Critici e acquirenti. I critici perché troppo impegnati nell’esegesi del problema macroscopico del senso della parola “opera d’arte” nell’epoca della serigrafia, e quindi della sua riproducibilità tecnica potenzialmente infinita – ma non c’era già il regale e tronfio cesso di Duchamp? –, badando poco a quello che veniva rappresentato, come ad esempio la sedia elettrica. Diamine, una sedia elettrica! Come si fa a disquisire sulla morte o meno del concetto di unicità dell’opera d’arte davanti alla rappresentazione di una sedia elettrica? Oppure davanti al non meno inquietante viso stereotipato di Marilyn, una donna condannata dalla fama e dal business irrefrenabile a nascondere le sue pene e sofferenze di donna comune dietro un sorriso sempre gradevole… E sempre uguale.

Gabbati gli acquirenti: le ricche signore americane acquistavano a cifre esorbitanti quella stessa stampa della sedia elettrica perché, prima di tutto, recava la firma di Warhol che, voglio dire, faceva fare un figurone e poi in secondo luogo per l’arancione della stampa che si abbinava così bene alle tende del salotto!

E intanto Andy se la rideva, faceva soldi a palate e affermava che la cosa più bella di Firenze, Parigi e New York era il McDonald, mentre a Pechino e a Mosca non c’era ancora niente di bello. Non solo: dichiarava di adorare la plastica,  di voler tanto diventare un uomo di plastica e si augurava un’umanità tutta fatta di plastica… Perché un mondo fatto di uomini perfettamente uguali sarebbe stato bellissimo.

Warhol ha sbugiardato la perversione della mentalità plagiata dall’ossessione consumistica, mostrandola per quel che è: prodotto finale di una manipolazione perfettamente riuscita. Nello stesso momento in cui i grandi filosofi e critici della società sciorinavano manuali di denuncia ultra-intellettualistica e un po’ moraleggiante, Andy sceglieva una strada differente: far emergere la mostruosità della massificazione nichilista calandosi egli stesso nel sistema, muovendosi in esso e di più, diventandone consapevolmente portabandiera ed esaltatore.

La società ci vuole trasformare in automi adoranti, oggetti, star televisive, prodotti e altre grandi armi di distrazione di massa? Bene, Andy Warhol non ha fatto altro che, né più né meno, assumere in modo radicale le sembianze dell’uomo che il mondo d’oggi si sforza di far emergere, mostrandone l’orrore con più efficacia di qualsiasi sermone dei critici sociali più accaniti.

Andy, il cavallo di legno entrato in America da mezzo secolo continua ancora, rafforzato da qualsiasi iniziativa esposizionistica della sua opera, a mieter vittime e a incendiare le torri della metropoli nemica di qualsiasi civiltà.

WARHOL: HEADLINES

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, 12 Giugno – 9 Settembre 2012.

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Webmaster - Redattore Cinema

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