We are young. We are strong di B. Qurbani, Ger 2014, 123′
Produzione: UFA Fiction/Ludwigsburg;
@ Festival Internazionale del Film di Roma, 16-25 ottobre 2014
We are Young. We Are Strong del 34enne Burhan Qurbani è un film sull’adolescenza. Un’adolescenza innamorata e vuota. Violentemente innamorata perché l’amore è più violento di un pugno che «al massimo spacca il muso mentre l’altro distrugge tutto da dentro» e potentemente vuota perché cantare L’Internazionale con una svastica stampata sulla fronte testimonia il totale disorientamento che è costretta a vivere gran parte della popolazione giovanile mondiale.
In concorso nella sezione Cinema d’oggi racconta, in un clima da thriller fantascientifico, con lo scandire del tempo su schermo nero e una colonna sonora post rock – a tratti punk, cosmica e con lunghi inserti di classica -, le ore che precedono la notte del fuoco che ha sconvolto la cittadina di Rostock nel 1992. Gran parte del film è girato negli interni e negli esterni della Casa dei Girasoli, il centro d’accoglienza per i rifugiati vietnamiti dove sono avvenuti gli scontri tra la polizia e gli abitanti. Bianco e nero nouvelle vague, desolazione cinerea da europa orientale, atmosfera post atomica e piani sequenza claustrofobici inchiodano lo spettatore e lo tengo col fiato sospeso fino alla scena finale, dove i giovani protagonisti del film, nel silenzio più assoluto, ballano di fronte all’incendio da loro stessi provocato, in una danza al tempo stesso macabra, rituale e catartica. Non si sa da che parte stare: questo film segue la psicologia di molti protagonisti, sta dalla parte di tutti e di nessuno perché la storia è esistenza e la psicologia è insondabile. Come L’Odio di Kassovitz ma dal punto di vista dei neonazi. Il liceale Stefan (Jonas Nay), un ragazzo che si definisce normale – «né di destra né di sinistra» -, fa coppia con il suo amico Lore (un Joel Basman, moderno Sid Vicious, che rutta, tira pietre e molotov, suona il pianoforte e soffre pene d’amore per la bella del gruppo) e si muove per le strade del quartiere insieme al suo gruppo di amici, quasi come fosse la Parigi degli scontri del maggio francese.
Fa da contraltare la vicenda di Lien (un’intensa Trang Le Hong), giovane vietnamita trasferitasi in Germania, che tenta disperatamente di riuscire ad ottenere il permesso di soggiorno permanente ed è combattuta tra la voglia di restare e affrontare i disordini o tornare con la famiglia in Vietnam. Diritti contro diritti. Licenziamenti, suicidi, povertà, ignoranza, conflitti generazionali, il film non perdona la mancanza di scelta dell’apparato politico e le manovre irragionevoli di quello poliziesco. Memorabile la scena della riunione politica: un triunvirato che chiacchiera, realizza strategie e sostanzialmente se ne lava le mani organizzando grigliate di carne (eccezionale l’interpretazione torbidamente misurata di Devid Striesow (a capo della politica che governa la città e padre di Stefan).
Bellissime soggettive che scandagliano le difficoltà psicologiche dei personaggi e poetico il parallelismo temporale delle scene in cui il figlio tra le onde (che ricordano le acque del pacifico de La sottile linea rossa di Malick, complice la somiglianza fisica e attorale del protagonista con Jim Caviziel) e il padre disteso sulla sdraio a casa propria, guardano contemporaneamente lo stesso sole: il figlio si prepara all’attacco e il padre ha steso la camicia bianca.
Il colpo di scena è l’arrivo del colore. Poco prima degli scontri il gruppo di adolescenti viene intervistato da una emittente televisiva: sta succedendo veramente! I ragazzi rispondono a temi come la libertà, i sogni, il perché di essere lì in quel momento. Ciò che ne viene fuori è ciò che nella maggioranza dei casi accade anche oggi e cioè che i ragazzi sapranno anche quello che fanno ma molto spesso no. Ed è normale che sia così.