Titolo italiano: …E ora parliamo di Kevin
Regia: Lynne Ramsay
Soggetto: dal romanzo di Lionel Shriver
Sceneggiatura: Lynne Ramsay e Rory Kinnear
Fotografia: Seamus McGarvey
Montaggio: Joe Bini
Scenografia: Heather Loeffler
Costumi: Catherine George
Musiche: Jonny Greenwood
Cast: Tilda Swinton, Ezra Miller, John C. Reilly, Jasper Newell, Rocky Duer
Produzione: Jennifer Fox, Luc Roeg, Bob Salerno (BBC Films- Forward Films)
Durata: 110 min.
E’ con il colore rosso che si apre la prima sequenza di questo film, una sequenza a metà tra sogno, realtà e visualizzazione diretta dell’inconscio della protagonista; ed è sempre lo stesso colore a predominare in molte inquadrature successive, e a manifestarsi nei momenti più significativi della narrazione. Il rosso è, nel film, la tinta cromatica del dolore, della disperazione di una donna corrosa dai sensi di colpa, di una maternità drammatica, violenta e non sentita come naturale, e infine di una macchia profonda e indecente che non può essere né cancellata, né rimossa.
La regista Lynne Ramsay ci conduce lungo il tragico percorso di una madre “mancata”, che ha fallito nel suo compito più difficile e più importante (più agli occhi degli altri, che ai suoi), quello di crescere suo figlio con amore, cura e devozione, come dovrebbero fare tutte le madri.
Il suo, invece, è un iter familiare anomalo, raccontato nel film in ordine non cronologico, ma attraverso i diversi tasselli temporali di un puzzle, che compongono alla fine un quadro generale formato da causa ed effetto degli eventi, e che tuttavia resta incompleto nel suo significato profondo, sottraendosi a una spiegazione totale. La regista, infatti, ci suggerisce che c’è sempre qualcosa che sfugge ai nostri occhi e che è indipendente da noi, come da ogni comprensione razionale e logica delle cose, da ogni desiderio di volerle svelare del tutto, capirle, metterle a fuoco.
La mente umana, infatti, è dominata da un caos assordante, che può prendere derive anche pericolose, e che è legato ai nostri istinti più primitivi, messi a tacere dalla ragione, dall’educazione e dalla società.
Ogni inquadratura del film è costruita come se fosse una tela di arte contemporanea, su cui il colore si addensa solo in un punto o si diluisce del tutto, e dove i personaggi sono letteralmente persi nell’ambiente circostante, costellato di non-luoghi asettici, tutti accomunati dalla desolazione e dalla vacuità; strade notturne, corridoi di un supermercato, stanze di un ufficio, campi da minigolf: tutto si equivale, tutto è anonimo.
Ciò che non è anonimo è invece il dolore che ha gli occhi neri e intensi di Tilda Swinton, un dolore alienante, indicibile, distruttivo, che scava lentamente come una goccia sulla pietra e che la conduce a un solo, ultimo gesto significativo, per congedarsi da suo figlio: un abbraccio inaspettato, in cui sono racchiuse insieme la rabbia ma anche l’apertura della donna verso colui che avrebbe dovuto esserle, ma non lo è stato, familiare.
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