Fino al 21 aprile al Teatro Argot l’esperimento di monologare il celebre romanzo di Dino Buzzati attraverso l’interpretazione di Woody Neri.
Il Deserto dei Tartari
Dal romanzo di: Dino Buzzati Adattamento: Maura Pettorruso Con: Woody Neri Regia: Carmen Giordano Organizzazione: Daniele Filosi In co-produzione: Provincia autonoma di Trento e Ecomuseo della Valle del Chiese Patrocinio: Fondazione Dolomiti UNESCO e Ass. Inter. Dino BuzzatiDal 10 al 21 aprile 2013 – Teatro Argot, Roma
Il Deserto dei Tartari è un luogo dell’estremo nord dove il tempo si fa diavolo e la nebbia prefigura ombre di nemici inesistenti, laddove i pensieri di una sconsolata a speranzosa solitudine iniziano a parlare e a prender voce. Il luogo di questa abbandonata desolazione è la Fortezza Bastiani, in cui l’ambizioso tenente Giovanni Drago farà i conti con una posizione non più strategica della fortezza e quindi lasciata all’erbaccia.
Lo stesso tenente che cercherà di commisurarsi e illudersi dell’errore di esser lì: è l’ossessione portante di tutto lo spettacolo, e forse dell’omonimo romanzo del milanese Dino Buzzati, in cui nel «sono qui per uno sbaglio» congelerà ogni tentativo di luce da parte del tenente, compagno solo dello spegnere e accendere le lampadine della stanza/tomba. Tanto da metabolizzare la rassegnazione che in fondo un errore non è mai stato. Un confronto lungo tutta una vita in cui la diegesi del racconto si catapulta sul corpo scenico di Woody Neri, interprete calcolatore e meticoloso, finissimo contemporaneo dicitore, con una sbalorditiva attenzione alla verità sua d’attore paralizzata a quella del tenente – forse anch’egli attore di un errore. In fondo nel teatro, l’attore deve essere lì per errore -.
L’adattamento di Maura Pettorruso è minimizzato all’essenziale per facilitare il monologare di una scrittura scenica che ha l’ambizione di spogliare la storia di ogni cornice e concentrarsi sulle dinamiche esistenziale del protagonista, attraverso riflessioni sulla paura, sulla speranza, sulla vita, sulla morte, i dubbi inceppati in un ritmo di regia – intelligentemente calibrati da Carmen Giordano – che obbliga, e ci obbliga, a un estenuante confronto con se stesso in un’intimità che cerca necessariamente l’altro. I repentini capovolgimenti di pensiero sono resi in maniera chiara e semplice attraverso delle abat-jour spente e accese a seconda del flusso di coscienza dall’attore. Un tentativo di sopprimere la natura del romanzo per centrifugarne il senso – o i sensi, se si vuole -. Una rinuncia che diventa scelta primaria, e l’illusione di ciò che si crede vampirizzata dal tempo. Lo scontro uomo-tenente diventa manichino per emozionare e umanizzare lo Sbaglio, l’errore incombente.