Come ogni anno la commissione riunita dalla World Press Photo Academy giudica e premia quelli che sono stati ritenuti i migliori scatti di fotogiornalismo. Con l’omonima esposizione – World Press Photo – anche nel 2013 il Museo di Roma in Trastevere offre la possibilità di affrontare il mondo e la condizione dell’Essere Umano.
Titolo: World Press Photo 2013
Artisti: R. Abd, M. Albert, B. Armangue, A. Awad, A.Bedyńska, R. Benton, D. Berehulak, S. Bidstrup, F. Buccirelli, F. Buyckx, V. Buzzi, Wei Seng Chen, S. Chow, Y. Chu, F. Dana, J. Ehrbahn, M. Elan, E. Felix, J. Grarup, M. Hald, A. Hana, P. Hansen, A. Huey, S. Ilnitsky, N. Kander, A. Lufti, J. Manzano, C. McGrath, E. Morenatti, T. Munita, D. Nahr, P. Nicklen, E. Noorozi, D. Ochoa de Olza, E. Özmen, T.P. Peschak, N. Pančić, P. Patrizi, P. Pellegrin, F. Podavini, A. Qadri, D. Rodrigues, A. Romenzi, D. Rouvre, M. Saeedi, I. Swarc, S. Tomada, A. Van der Pluijm, S. Vanfleteren, R. Vondrous, Fu Yongjun, Xiaoqun Zheng, Wei Zheng, C. Ziegler
Luogo: Museo di Roma in Trastevere, Piazza Sant’Egidio 1/b
Dal 4 al 26 maggio 2013
In foto: Micah Albert, At the Dandora dump
L’immagine vincitrice del concorso fotografico World Press Photo 2013 porta il segno della violenza. Paul Hansen fissa il momento del trasporto di due piccoli cadaveri, nella città di Gaza. Questo scatto e poi i molti altri che seguiranno daranno la misura di ciò che il mondo – e in particolare un mondo all’Europa così vicino – ha patito e continua a patire.
Che l’Uomo sia l’artefice di ciò che più lo ferisce e danneggia è confermato dalle innumerevoli altre immagini – tra cui Life in war di Majid Saveedi o Sudan border wars di Dominic Nahr – che ribadiscono sempre e di nuovo l’aspetto di un essere umano incapace di sentirsi prossimo ai suoi simili, di prendersene cura.
Gli effetti e forse gli intenti stessi del concorso sono ancora quelli di porre l’osservatore al centro dell’evento.
Il fotogiornalismo obbliga all’immersione nel fatto: non si guarda dall’esterno ma si viene uniti alla notizia, trasportati al suo interno tanto quanto quelle stesse circostanze sono al contempo trasportate, seppure solo per un attimo, nella quotidianità di chi si pone davanti alla loro documentazione.
È proprio la quotidianità, allora, a prendere il sopravvento. Nei ritratti di Natalia (Felipe Dana) o Mirella (Fausto Podavini), in quelli di Zuzia (Anna Bedyńska) o Bonnie (Marie Hald), sono le storie di vite diverse a incrociarsi e accavallarsi davanti agli occhi del visitatore. Quello che circonda i volti, il contesto, passa in secondo piano, e si entra a far parte di una singola vita, cercando di leggerne le tappe in quei volti che l’apparecchio fotografico ha provveduto a bloccare davanti a sé. La malattia, l’amore, la solitudine, ma anche il coraggio, il sacrificio e la soddisfazione, persino la fede; i sentimenti e le attitudini degli esseri umani vengono catalizzati in una serie di sguardi resi unici e rappresentativi dall’essere impressi su carta.
Sarà dunque il permanere di un’immagine, la possibilità che le fotografie danno di entrare a far parte di storie differenti e distanti dalle proprie, interessandosi a esse e cercando di comprenderle, a permettere di sperare.
Micah Albert con At the Dandora dump mostra che è possibile fermarsi, anche nella disperazione, anche nella peggiore delle condizioni, e concentrarsi su qualcosa d’altro, qualcosa che permetta di andare oltre il presente, proiettandosi verso nuove possibilità, verso le quali solo le testimonianze altrui possono essere una guida.