L’artista giapponese Yayoi Kusama ci invita ad un conturbante viaggio a pois con una mostra itinerante nei più importanti musei scandinavi. Qui il reportage della seconda tappa dell’esposizione presso l’Henie Onstad Kunstsenter di Oslo (19 febbraio – 15 maggio 2016)
Alla veneranda età di 87 anni, l’eccentrica artista giapponese Yayoi Kusama (Matsumoto, 1929) continua a incuriosire, sorprendere e divertire con una mostra itinerante in Scandinavia promossa dalla Japan Foundation e dalla Japan Airlines e ospitata – a partire da settembre scorso – dal Louisiana Museum of Modern Art di Copenaghen, l’Henie Onstad Kunstsenter di Oslo, il Moderna Museet/ArkDes di Stoccolma e l’HAM Helsinki Art Museum di Helsinki. “Yayoi Kusama – In infinity” vuole delineare il percorso dell’artista a partire dai primi disegni della fine degli anni Quaranta fino alle ultime tele realizzate negli anni dieci del Duemila, in un’ottica creativa senza soluzione di continuità che procede ad infinitum, come suggerisce anche il titolo dell’esposizione. Dalla difficile infanzia, di cui porterà con sé i segni traumatici per tutta la vita, passando per la povera solitudine iniziale provata a New York e poi per i naked happenings americani, arrivando fino al Giappone odierno, il suo percorso creativo si è andato continuamente rigenerando come un’araba fenice che risorge dalle proprie ceneri. In questo viaggio lungo una vita, il visitatore è subito catapultato in una dimensione allucinogena scandita da un’infinità di pois, cifra ricorrente e caratterizzante tutta la produzione di Kusama e che si lega alle allucinazioni di cui soffre sin da quando è bambina. I costanti disturbi d’ansia e gli atteggiamenti ossessivo-compulsivi caratterizzano la sua attività artistica sin dall’inizio, fino a quando nel 1977 decide di farsi curare permanentemente presso l’Ospedale Psichiatrico di Seiwa, in Giappone, nel quale trascorre il resto della sua vita e dove ancora oggi risiede. “Yayoi Kusama – In infinity” si apre con una ristretta selezione dei suoi primi lavori realizzati tra gli anni Quaranta e Cinquanta, alquanto originali rispetto al panorama artistico nipponico d’allora, ancora profondamente ancorato a stilemi tradizionali. Queste opere infatti sono espressione esclusiva del mondo interiore di Kusama, dove la scelta cromatica di tonalità scure è spesso prevalente. Esse rivelano una sofferta volontà di sintonizzarsi con il suo Io più profondo per lasciarlo fluire attraverso rappresentazioni, il più delle volte, astratte. Il proliferare di immagini connesse a microrganismi e a varie altre forme organiche vegetali qui presenti, echeggiano anche negli accumuli di forme falliche delle sue opere americane a partire dagli anni Sessanta, suscitando un senso di fascinazione e inquietudine al tempo stesso.
Anche se i lavori del periodo giovanile sono per la maggior parte di piccole dimensioni, incorporano, nel loro dispiegarsi di segni e materia, puntini sparsi e reti fluttuanti: prodotti di una ripetizione ossessiva derivati direttamente dal suo disturbo d’ansia costante. Nelle opere in mostra di questo primo periodo, il supporto cartaceo è coperto da macchie o trattini che vanno a riempire lo spazio del foglio: il lavoro di Kusama, infatti, non è vincolato dalla nozione di centro, ma anzi, abbraccia l’idea che il segno possa proliferare al di là di ogni limite, secondo una totale libertà strutturale, anticipazione delle grandi tele “Nets” degli anni Sessanta realizzate a New York, presenti in mostra in alcune varianti.
In questi dipinti americani puntuali segni cumulativi danzano ritmicamente sulla tela. In Pacific Ocean, dipinto realizzato nel 1960 e presente in mostra, la rete monocroma – “net” – si muove scandendo la superficie del quadro proprio come a simulare l’andamento delle onde dell’oceano, ricordo, forse, del viaggio compiuto da Kusama per giungere negli Stati Uniti. Uno stesso tratto viene applicato con il pennello secondo impercettibili varianti, più e più volte, mentre procedendo verso i bordi della tela l’energia del segno cresce, facendosi più densa. Nei sedici anni di vita vissuti in America (dal 1957 al 1973), Kusama sviluppa un’arte strutturata intorno alla reiterazione del gesto, rivelatrice di un equilibrio psichico instabile alla continua ricerca di un baricentro regolatore. La sequenza di grumi microscopici che costellano l’intera superficie della tela configura uno spazio fatto di accumuli di segni che tende ad essere percepito come illimitato. Ogni pennellata trasforma lo spazio pittorico: da campo visivo tangibile e circoscritto, esso si espande fino a divenire spazio dell’Infinito. L’arte di Kusama inizia con le “infinity nets” a radicarsi nel bisogno di costruire la totalità a partire dalla compresenza di singole parti, quasi microscopiche; di liberare il proprio essere nel vuoto assoluto della superficie della tela; di trasformare reti bianche in azioni performative. L’essere diventa non essere, la vita si mescola indissolubilmente all’arte.
Il concetto dell’annullamento di sé, dell’obliterazione e del ricongiungimento a un tutto che potremmo chiamare Natura, Infinito, Cosmo, Vacuità, è l’elemento cardine di tutta la filosofia di Kusama. I pois – inizialmente di piccole dimensioni poi sempre più grandi – sono la cifra stilistica ed esistenziale attraverso cui l’artista può divenire un tutt’uno con la sua arte e, quindi, non essere. L’obliterazione tanto professata da Kusama può così avere inizio.
Il segno circolare – oltre a connettersi con le allucinazioni di cui ha sempre sofferto l’artista – richiama per associazione la forma del sole, simbolo per eccellenza di energia per il mondo e per la vita dell’uomo, ma anche quella della luna, incline ai cambiamenti ciclici. Tale circolarità, contenente in sé anche il germe dell’eternità, rimanda al movimento, a un tempo che avanza e che perennemente è, alla natura ciclicamente rinnovata. L’dea di infinitezza tipica dei Net Paintings connota, dunque, le opere di Kusama come estremamente immersive: l’osservatore muove lo sguardo in modo irregolare lungo tutta la superficie della tela, caratterizzata da una struttura che non ha né inizio, né fine, né centro. Ciò porta il soggetto a trovare e a seguire un proprio moto, una propria andatura di lettura dell’opera, fino a perdervisi completamente.
La mostra documenta in maniera variegata attraverso opere, manifesti, fotografie e filmati, gli anni vissuti a New York, in cui la posizione di Kusama all’interno del panorama d’avanguardia americano si fa via via più solida, intessendo connessioni anche con l’ideologia hippie con cui condivide l’ideale dell’amore libero. La politica nella sua arte si fonde, diventando un tutt’uno, con la filosofia dei pois o polka dots: dal 1967 attraverso gli happenings, le sue produzioni nel campo della moda e il film Self-Obliteration, Kusama riesce a portare il suo lavoro oltre i confini dello studio, verso una partecipazione attiva della collettività, proponendosi come artista-artefice di una rivoluzione artistica e sociale per mezzo di un lavoro sempre più anticonformista, subculturale, al di fuori dei circuiti artistici pubblicamente riconosciuti.
Ma al di là di tutto questo, ciò che nella mostra “In Infinity” è ben espresso è la volontà di Kusama di creare spazi per trasformare lo sguardo, sorprendendo il visitatore trasportandolo in un mondo parallelo fatto di pois. È così che le tre mirror rooms – ovvero le sue note stanze rivestite di specchi – allestite per l’occasione hanno particolarmente entusiasmato il pubblico. Infinity Mirror Room – Phalli’s Field – la prima della serie inaugurata nel 1965 – conta la fila fuori dalla piccola porta che, una volta aperta, rivela un campo di morbide sculture falliche a pois – l’espressione massima delle accumulazioni di Kusama, già abbondantemente presenti in mostra – in cui il soggetto è contemporaneamente di fronte all’opera e nell’opera. All’interno dell’ambiente interamente allestito con superfici specchianti, infatti, l’immagine riflessa del visitatore viene scomposta in infinite altre immagini di se stesso: lì dove poserà lo sguardo troverà sempre la propria immagine replicata, in un gioco di rimandi senza fine. L’evanescenza degli spazi permette così di accedere a una dimensione altra, quasi parallela, diversa da quella che è all’esterno della stanza e da cui il soggetto proviene, percepita invece come più tangibile e reale. Ed ecco un altro elemento fondamentale ricorrente nei lavori di Kusama: lo spazio reale e quello illusorio si incontrano nell’instabilità della percezione, realizzando luoghi-non luoghi all’interno dei quali il soggetto è fisicamente presente e, allo stesso tempo, emotivamente e psichicamente altrove.
La seconda mirror room in cui piacevolmente ci si imbatte è forse la più famosa installazione specchiata di Kusama. Mirror Room (Pumpkin) del 1991 ha come elemento centrale un oggetto da sempre amato dall’artista e replicato in infinite varianti a partire dagli anni Ottanta: la zucca. Ammaliata dalla deliziosa forma di questo vegetale, dalla semplicità e dalla solidità della sua struttura, Kusama la proporrà, negli anni, oltre che come soggetto di installazioni anche come motivo pittorico, dipingendo colorati acrilici su tela e realizzando varie sculture di cui si ha un sintetico assaggio qua e là nel percorso della mostra. Mirror Room (Pumpkin) fu una delle prime grandi opere che Kusama produsse dopo il suo definitivo ritorno in Giappone nel 1973 e fu parte dell’allestimento per il Padiglione del Giappone alla Biennale di Venezia del 1993. L’installazione si presenta come una sala completamente rivestita con un pattern giallo a pois neri, al centro della quale si trova un cubo realizzato internamente ed esternamente con pareti specchianti. Gli specchi riflettono i pois circostanti, producendo l’illusione di uno spazio – quello della stanza cubica – smaterializzato e fuso perfettamente con l’ambiente della sala. Ma lo strabiliante effetto di quest’installazione viene ampliato nel momento in cui il visitatore si affaccia alla finestrella aperta su una delle facce del cubo: all’interno, piccole zucche di cartapesta di diverse dimensioni si riflettono nelle pareti specchiate, rifrangendosi all’infinito. Una mirror room nella mirror room: il sodalizio tra pois e specchi – che garantiscono la resa di spazi infiniti e immateriali – è così realizzato. La fusione di questi componenti non può che rendere l’opera estremamente affascinante, oltre che di grande impatto. Provare per credere.
Come in Mirror Room (Pumpkin), l’elemento cubico rivestito completamente da pareti specchianti in cui non è ammesso entrare, ma di cui è possibile scoprire l’interno attraverso una sorta di finestra, ritorna anche in The Passing Winter del 2005. In questo caso, però, le aperture presenti sulla superficie riflettente della scultura sono molteplici e di forma circolare, cosa che comporta maggiori e complessi giochi ottici. Un universo questo che anziché espandersi, in un certo senso, si contrae su se stesso e in cui è alquanto divertente perdersi.
La terza mirror room è Infinity Mirrored Room – Hymn of Life del 2015: una stanza buia in cui non si può che restare ammaliati dalle grandi sfere di carta a pois che gradualmente cambiano colore, il cui effetto viene amplificato dalle pareti specchianti e dall’acqua che segue a filo una passerella su cui il visitatore può camminare. Lo spazio così creato è a dir poco incredibile: un’infinità di pois di carta giganteschi, a loro volta marchiati da pois neri, ci circondano a 360° inducendoci, secondo la volontà di Kusama, all’obliterazione.
La mostra poi prosegue con gli ultimi lavori prodotti dall’artista, spesso accostati ai princìpi dell’art brut per la semplicità del tratto e il potere espressivo e caratterizzati da colori vivaci scelti a seconda del grado di contrasto. La composizione nasce non da una progettualità, ma dalla spontaneità del segno, improvvisato direttamente sulla superficie della tela. Si arriva così, dopo aver attraversato la sala con l’installazione Dots Obsession e aver incontrato la perfetta, e un po’ inquietante, riproduzione in cera dell’artista – direttamente dalla vetrina dello store Louis Vuitton sulla Fifth Avenue (New York, 2012) – alla Obliteration Room. Prima di entrarvi, si viene muniti di un pois adesivo che si può liberamente attaccare all’interno della stanza dove si vuole: l’intento è quello di ricoprire tutto di pois, ogni oggetto presente, parete e soffitto. Dissolvere lo spazio attraverso la forma circolare colorata e, in esso, dissolverci anche noi. La straordinarietà della ricerca artistica, instancabile, di Kusama – qui illustrata in un arco di tempo che va dalla fine degli anni Quaranta ad oggi – trova la sua ragion d’essere proprio nell’operare sempre e comunque lì dove arte e vita si fondono, lì dove i confini tra equilibrio geniale e equilibrio mentale si fanno labili, dove il tempo sembra non sussistere e dove la realtà si trasforma, o meglio, si oblitera nell’eterno senza fine del pois.
1 commento
Conoscevo in parte yayoi kusama, ma il reportage di questa mostra così descritta e illustrata mi ha aperto un mondo!
Fruire le sue opere e camminare nel suo mondo deve essere veramente un’esperienza fantastica.