Roberto Scarpetti | 28 Battiti

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foto Achille Le Pera

foto Achille Le Pera

scritto e diretto da Roberto Scarpetti

con Giuseppe Sartori

video Luca Brinchi e Daniele Spanò

movimenti Marco Angelilli

live video Maria Elena Fusacchia

assistente alla regia Elisabetta Carosio

Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale

 

18 novembre 2016, Teatro India, Roma

 

Buio. Si intravede la sagoma di un uomo che appare sulla scena e si siede ad una scrivania.

Una scrivania, una sedia, uno sgabello e un uomo sono gli unici elementi di cui si serve Roberto Scarpetti in “28 Battiti”, in prima nazionale al Teatro India.

Da uomo infatti, e non da attore, si presenta Giuseppe Sartori, che interpreta un atleta olimpionico – dalla frequenza cardiaca nettamente inferiore alla media, 28 battiti appunto – risultato positivo ai controlli anti-doping, identificabile chiaramente con il celebre Alex Schwazer.

Tuttavia non è la storia del marciatore trentino che interessa Scarpetti, bensì l’analisi introspettiva che da essa deriva. Il focus dunque è ben più universale dell’effimero fatto di cronaca: si mettono in ballo le debolezze umane e le ossessioni legate al proprio corpo e al bisogno di avere successo.

Non è da escludere che Sartori possa aver attinto anche alla sua propria esperienza di vita per riportare in scena un’autentica memoria emotiva. Ne deriva un personaggio che si chiama Giuseppe – proprio come l’attore – e che parla con spiccata cadenza veneta, senza ricercare la sonorità altoatesina o un italiano pulito.

Si avverte un impellente bisogno di verità, di venire allo scoperto in maniera limpida. Lo suggerisce la scarna messinscena; lo suggerisce il lento ma graduale svestirsi dell’attore; ma soprattutto lo suggeriscono i live-video di Maria Elena Fusacchia, in cui ci si sofferma su alcuni dettagli del corpo del protagonista – secondo un preciso schema anatomico, legato perfettamente alla drammaturgia del testo, che parte dalle mani e si conclude sui piedi – utilizzati come sfondo neutro per proiettarvi sopra più vivi e colorati paesaggi naturali o spensierati momenti di vita.

Lo spettatore viene dunque bombardato dagli stessi pensieri, ricordi e immagini che invadono la mente di Giuseppe, e che per quattro volte si ripresentano durante la narrazione. Lo scopo è quello di creare empatia con il protagonista, per ripercorrere insieme a lui il sofferto processo cognitivo che lo induce a recarsi a Kiev, con 10mila euro in contanti, per acquistare delle fredde fialette dopanti che lo aiutino a migliorare le prestazioni sportive a seguito di un infortunio. Il rischio è di sfociare tuttavia nel vittimismo vacuo di chi ha solo sofferto nella vita: pressioni paterne, allenamenti obbligati, orari restrittivi, ferrei regimi alimentari, solitudine.

La possibilità di utilizzare le proprie braccia per qualcosa di diverso dal tenere il tempo di marcia, come ad esempio cingere un altro corpo e abbandonarsi ad un tenero abbraccio, sembra essere una delle principali ragioni che lo spingono ad uscire dalla sua “gabbia”. Il doping diventa dunque la chiave per la porta d’accesso alla libertà.

L’atleta è consapevole che doparsi significa porre fine alla propria carriera. Ma è proprio questa che rifugge. Il successo lo ha annichilito, cancellando ogni suo desiderio.

«Nel mio sangue ho trovato la forza, la fine della mia carriera, il mio riscatto» dice Giuseppe, mentre fa quel prelievo decisivo che lo renderà inviso agli occhi dei più, ma grazie al quale torna ad essere “un uomo” agli occhi di se stesso.

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Autore

Tony Scarfì

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